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Il movimento del ’77 bolognese è stato prima di tutto un movimento di fuori sede. Tanti giovani, da diverse parti d’Italia, tanti intellettuali (allora si chiamavano così), tanti professori, si trovarono per motivi misteriosi a convergere su Bologna.
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È giusto che radio Alice ne resti il simbolo. Perché dentro c’era di tutto, e in fondo nessuno andava totalmente d’accordo con nessuno.
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L’unità era tutta nella volontà di considerare inaccettabile l’esistente, insieme alla consapevolezza dadaista della sostanziale inutilità della rivolta stessa. Non si prospettava nessun futuro radioso. Radioso poteva essere il presente, la sua fiammata, l’esistere semplicemente come comunità priva di regole.
Il movimento del ’77 bolognese è stato prima di tutto un movimento di fuori sede. Tanti giovani, da diverse parti d’Italia, tanti intellettuali (allora si chiamavano così), tanti professori, si trovarono per motivi misteriosi a convergere su Bologna all’inizio degli anni Settanta. Il movimento ebbe grande influenza sulle giovani generazioni bolognesi, i liceali di allora, ma quasi nessuna sulla città, che si chiuse a guscio sprangando porte e finestre.
Uno di quei giovani di allora, attirato a Bologna dal richiamo del nascente Dams, pubblica oggi (ebook edito da Il Dondolo, casa editrice digitale del Comune di Modena diretta da Beppe Cottafavi) un pamphlet dal taglio squisitamente settantasettino, una sorta di collage fatto di tanti frammenti la cui autorialità è sempre incerta. Sulla guerra incivile del Dams 1971/1979.
Ce lo propone quasi come reperto archeologico e si firma Matricola 13, per dire che è stato tra i primi iscritti del Dams.
Una brutta aria
Avendo vissuto quegli anni a Bologna, negli stessi luoghi, e conoscendo quasi tutte le persone citate, posso testimoniare che l’anonimo è autentico e molto probabilmente siamo stati in fila insieme decine di volte davanti alla mensa di piazza Verdi.
L’antefatto è ben riassunto nell’incipit del suo originale intervento: «1971-1976. Strade a sangue, morti a destra e sinistra, poi Brigate rosse, Prima linea, Ordine nuovo. La maggiore età passa dai 21 ai 18 anni. Cade Saigon. Quattro colpi di stato fascisti, una sola breve rivoluzione in Portogallo. Si libera un po’ di etere e qualcuno inizia a trasmettere via radio da Milano. La guerra civile è camuffata da resa dei conti tra bande, tira una brutta aria».
Tirava davvero una brutta aria, che sarebbe durata fino alla bomba nella stazione di Bologna, ma stranamente il movimento non nasce su basi militariste-insurrezionaliste. La sua componente più originale fa riferimento al dadaismo: il Dadams, lo chiama l’anonimo. Perché il Dadams sfugge di mano al progetto iniziale, e diventa parte stessa del movimento (userò solo tra parentesi la terribile parola: creativi).
In cerca di contenuti
I fuori sede non erano figli di papà annoiati: per lo più erano ragazzi con pochissimi soldi che vivevano in case sovraffollate e carissime. In mensa c’era una fila lunghissima, a serpente attorno alle statue di Pomodoro.
Ci si poteva anche laureare, la generazione del boom aveva frequentato le scuole come previsto, ma non gli si prospettava alcun futuro. Le nostre ci sembravano vite insensate.
Non si fumavano solo spinelli, si leggeva molto, qualcuno senza capire quasi niente di quel che leggeva. Ricordo la faccia desolata di un ragazzo del servizio d’ordine dopo cento pagine di Ecrits di Lacan.
Nel complesso una generazione al collasso emotivo, in cerca di nuovi contenuti, compresi quelli irregolarissimi che venivano dalle avanguardie storiche e da movimenti non del tutto marginali (i situazionisti, per esempio). Si ascoltava Keith Jarrett, si facevano autoriduzioni nei ristoranti, Freak Antoni studiava i Beatles, altri elevavano mongolfiere e aquiloni.
«Ci siamo iscritti a questa facoltà nuova che poi non è una facoltà, ma qualcosa di facoltativo, non capiamo bene se è roba per fighetti, o un buco dove qualsiasi sbandato può intrufolarsi e rifarsi la buccia». L’autenticità di questa testimonianza è testimoniata soprattutto dalla lingua che usa. Inconfondibile. Uno slang di cui c’è traccia nel Boccalone di Enrico Palandri, per fare il nome di un altro allievo Dams.
È di nessuna importanza ma approfitto dell’occasione per fare una rettifica personale: in questo pamphlet appaio come studente del Dams, ma io ero iscritto a Filosofia… L’equivoco è da addebitare a Freak Antoni. Quando mi incontrava quasi si commuoveva e diceva abbracciandomi: «Io e Claudio abbiamo fatto il Dams insieme». Non ho mai avuto il coraggio di contraddirlo.
Cittadella nella città
Forse Matricola 13 ha assistito a un incontro del genere, o mi avrà visto al Dams. Perché, come racconta benissimo lui, con il sound giusto, ci si vedeva “dopo”, ai Pierini (aperitivi micidiali in un incrocio di via Marsala) o al Dams. Si era formata una cittadella nella città. Il “popolo degli alti” descritto da Palandri, che andava per vicoli e strade tutto il giorno, ma che di notte si concentrava lì, nella sua cittadella.
«Nel Dams di strada Maggiore, e poi di via Guerrazzi, albergano sbandati arrivati esausti come in una stazione marittima, a Bologna non c’è il mare, ma chi l’ha detto, forse è arrivata una marea».
C’era anche una radio, che viene evocata in questi aforismi. E delle persone che circolavano in tutti questi ambienti, svolgendo vari ruoli. A casa di Bifo c’era sempre un maggiordomo: lo facevano a turno. A radio Alice, in via del Pratello, trovavi sempre qualcuno, anche a notte fonda quando andava il nastrone. Nelle case tutti ascoltavano radio Alice: essere in radio o fuori era lo stesso.
Luciano Capelli, dedicatario del libro, lo si incontrava spesso, in radio e all’università. Una delle tante belle persone che ricordo. Viene citata una risposta che diede a un giornalista: «Panicone tra gli intellettuali del Pci, gli vanno a buca tutti i tentativi di trasformare il Dams in una specie di loro assessorato alla cultura. Qui c’è un gregge selvatico che se ne fotte dei cani pastore, pascoliamo in questa città dove anche l’erba è unta».
Timido, wendersiano, attento, così ricordo Luciano. Ma appaiono in tanti negli aforismi di Matricola 13, tutti meritevoli di attenzione, e quasi tutti andati via da Bologna già alla fine dei Settanta.
Per esempio Mario Barbi, dalla bella intelligenza. Ma come non ricordare Matteo Guarino, Mirco Pieralisi, Stefania Ghedini, i due Andrea, Zanobetti e Pazienza, il loro studio surreale, tra ingegneria avveniristica e fumetti…
La voce di tutti
È giusto che radio Alice resti il simbolo del ’77 bolognese. Perché dentro c’era di tutto, e in fondo nessuno andava totalmente d’accordo con nessuno. Le diversità emergono senza pudore anche in questo pamphlet. L’unità era tutta nella volontà di considerare inaccettabile l’esistente, insieme alla consapevolezza dadaista della sostanziale inutilità della rivolta stessa. C’era solo il presente, non si prospettava nessun futuro radioso. Radioso poteva essere il presente, la sua fiammata, l’esistere semplicemente come comunità del tutto priva di regole.
Tradotta in vari modi e terribilmente sintetizzata la battuta shakespeariana più spruzzata sui muri del centro era: «Signori, il tempo della vita è breve, e se viviamo viviamo per calpestare i re». Anche il «danse, danse, danse» di Rimbaud era molto spruzzato. Era un movimento polifonico, dove ognuno suonava lo strumento che sapeva suonare, una sorta di mosaico composto da migliaia di facce. Certo, qualcuno steccava.
Nel libro denunciatissimo Fatti nostri, edito avventurosamente da Bertani, apparivano le frasi di tutti, così come radio Alice era la voce di tutti. Voglio riportare almeno un frammento di un magnifico dialogo tra Gianni Celati e Freak Antoni:
Celati: «Movimenti itineranti nella testa… lo stato fusionale, che sarebbe il culmine della comunicazione, dove io sono te, io sono tutti, ognuno è tutti, e dunque ci si può parlare per ammicchi… sfondare la barriera del suono, della separatezza… non c’è più la chiarezza della madonna, il dogma della immacolata percezione, sono stato chiaro?».
Freak: «Pochissimo!».
Scrivere la fine
Quel movimento non è sfociato nel terrorismo, ma è imploso nell’eroina. Moltissimi miei coetanei morirono negli anni Ottanta, di eroina e di Aids.
Il mio sogno di allora, irrealizzato, era questo: ogni movimento dovrebbe saper scrivere anche la sua fine. Nessuno, tra le persone più note del movimento, ha tratto un beneficio personale da quella esperienza. I sopravvissuti sono andati ognuno per la sua strada.
«Andai via pensando che i muri parlassero più delle persone, che nessuno aveva più niente da dire, tutti esausti e sfiniti dai nostri passi» (Mario Barbi, che nel 1978 parte per Francoforte). O detto in altro modo: «La rivoluzione è finita, abbiamo vinto!».
Matricola 13 è autore del libro Sulla guerra incivile del Dams 1971/1979. Breve manuale dadadams, edito da Il dondolo, casa editrice digitale del Comune di Modena
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