«Se c’è una guerra di cui vorrei parlare, è quella che il nostro governo sta dichiarando alla magistratura». Era il 2003 e Daniele Silvestri, sul palco del primo maggio, introduceva così la canzone Il mio nemico. «Ora la potrei cantare per Elon Musk» dice alla vigilia della sua prima volta nel più vecchio centro sociale della capitale.

Sono passati vent’anni e il governo ha un nuovo scontro aperto con i magistrati: «È una costante», racconta Silvestri a Domani. «Ed è così squallido vedere come chi pensa di poter avere il potere di fare come gli pare, si scaglia contro chi gli ricorda che ci sono delle regole. Ma l’indipendenza della magistratura è uno dei principi cardine della nostra Costituzione».

L’artista ha appena festeggiato i suoi primi 30 anni di carriera con altrettanti concerti all’Auditorium della sua Roma e con un maxi evento al Circo Massimo che l’ha visto insieme a Max Gazzè e Niccolò Fabi, gli amici di sempre, tre simboli della seconda generazione di cantautori italiani. Una festa che continuerà al Forte Prenestino, una fortezza, con tanto di ponte levatoio, occupata dal 1986, dove da sempre si pratica autogestione. «Canto il 16 novembre, è il centenario di Remo Remotti, a lui dedicheremo un omaggio».

Che senso ha suonare per la prima volta, con ingresso a un prezzo “politico”, quindi ridotto, in un centro sociale nel 2024?
«Ho sempre pensato che fosse un delitto non esser riuscito a suonare al Forte, in 30 anni di carriera. Anche se ci sono stato tante volte da fruitore, in incognito. Mi piace quella filosofia e, a maggior ragione, mi piace nel 2024 quando tutto, soprattutto nel sistema politico, sembra andare in una direzione ben diversa. Tutte le occasioni in cui c'è una collettività come questa, che si mette insieme per fare controcultura e un lavoro solidale, di protezione della società, penso vadano premiate. La storia del Forte, poi, è così antica. È meraviglioso che ancora esista, che ci siano ancora persone che abbiano voglia di fare iniziative così. Nonostante, per me, sia stato un anno splendido, ricchissimo, credo che questo concerto sia la cosa più importante che mi sia capitata. Salirò su quel palco con grande piacere e con un profondo senso di responsabilità».

Porterà lo stesso spettacolo andato in scena all’Auditorium?

«Il Forte mi ha chiesto di portare quello spettacolo. Sapere che qualcosa di quello che raccontiamo valesse la pena portarlo anche là mi ha inorgoglito. Quello che va in scena oggi è figlio di Un cantastorie recidivo, ma non sarà la storia dei miei trent’anni, ma di quelli del paese. Perché raccontare quello che è successo ti spiega dove sei, quali strade hai preso e per quali motivi. Quali derive si possono riconoscere. Avere memoria serve. Visto che ho un’età per cui posso avere un po’ di memoria a disposizione la condivido».

Un cantautore “comunista” per un concerto che ha scelto di definire “ideologico”. Perché?

«Per un po’ di tempo ho preferito non usare quella parola perché rimandava a schieramenti, intestazioni di cause, bandiere, che sembravano avere un retaggio storico più che un reale rimando al mondo che questi ultimi venti anni hanno disegnato intorno a noi. Però, allo stesso tempo, se c'è una cosa che mi sembra evidente, è che questo mondo gira solo intorno all’autoritarismo, al mercato e al profitto, gli unici grandi vincitori di questa era storica. Ci manca dell’ideologia il suo senso più forte, originario. Il pensare che ci possa essere un’idea, un pensiero che riguarda gli esseri umani e il pianeta, il muoversi verso un orizzonte comune. Ora sembra che ci restino solo le emergenze, quelle vere e quelle create per giustificare interessi mascherati da operazioni di protezione. Mentre avremmo bisogno di un’idea di civiltà da perseguire. Mi è tornata la voglia di usare la parola “ideologia” per chiarire, se ci fosse il dubbio, che fare un concerto in un posto come il Forte non è una cosa che capita per caso, ma perché penso sia importante farlo. Lì non dovrò spiegare che è un momento storico preoccupante, soprattutto dal punto di vista delle libertà, della libertà del dissentire, in particolare. Però dargli quel nome forse lo chiarisce anche per chi al Forte non sarebbe venuto e, magari, non verrà».

Il Forte nel comunicato con cui lancia il tuo concerto parla del Ddl sicurezza che “mette nel mirino le occupazioni”. C’è ancora spazio in Italia per il dissenso?
È fisiologicamente impossibile che non si trovino le forme, il problema è che quando si inaspriscono le norme, poi si inaspriscono anche le reazioni. Si possono ridefinire le regole, ma prevaricare non è mai la soluzione. Le leggi devono portare a un miglioramento civile, ma in questo caso colpiscono le persone che non hanno voce per difendersi: i migranti, i poveri, gli emarginati, o anche solo quelli che non si riconoscono in certe posizioni. C’è ancora la possibilità che venga valutato come incostituzionale, ma vale sempre la pena far sentire la propria voce. So che ci sono cose organizzate in giro per l'Italia, ma mi sembra sempre un po' poco quello che si muove. Però, ecco, il Forte è sicuramente un luogo che ha molto ben chiaro quello che sta succedendo».

Manca poco alla giornata contro la violenza sulle donne. Non si può non pensare alla nuova vita che Paola Cortellesi ha donato alla sua A bocca chiusa nel film C’è ancora domani.

«Sarò sempre grato a Paola. Il modo in cui l’ha usata, il modo in cui è diventata le parole del film, è unico. Come succede spesso con le canzoni qualcuno può sentirci dentro altro e, spesso, ha più ragione di chi l’ha scritta. Paola ha cambiato il significato di quel brano, lo ha reso più giusto. In questo momento storico così forte, cantarla è diventato diverso anche per me».

Dice che «le battaglie le devono fare i ventenni». Cosa si aspetta da queste nuove generazioni?
«Penso che siano ancora molto confuse, che forse sarà il mondo a obbligarli a chiarirsi le idee. Sono confuse per colpa di chi li ha preceduti, probabilmente per motivi sociologici, perché il mondo è cambiato, perché il virtuale è così invadente. Da un punto di vista psicologico, poi, oggi è cambiato davvero il modo di essere adolescenti. Su alcuni temi, come l’ambiente e l’ecologia, c’è stata la capacità di muoversi. Ho visto la voglia di capire, anche da parte dei miei tre figli. Ma quando si tratta di battersi per quei diritti conquistati così a fatica, vedo una consapevolezza un po’ meno diffusa. Ma la rivoluzione, e c’è sempre bisogno che ce ne sia una, deve essere giovane, sennò vale poco».

Nell’anniversario del femminicidio di Giulia Cecchettin, studenti e studentesse chiedono sempre più l’inserimento dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Come papà pensa che possa essere di aiuto?
«Ne sono convintissimo. Penso che serva da sempre. Ma proprio ora che c’è maggiore consapevolezza, sarebbe bello che venisse trasmessa con le prime nozioni. Perché siamo nel 2024, ma il mondo spinge ancora in una direzione retrograda. Io stesso faccio fatica, devo correggere il modo in cui parlo, in cui uso il maschile plurale. Il modo in cui relazionarsi va insegnato, la famiglia fa fatica e l’ambiente scolastico è determinante. È una battaglia giusta».

La guerra. Il suo ultimo album ne è intriso. La guerra alle porte di casa, la guerra sui bambini che giocano, la guerra ai migranti. Non le sembra che ci sia un po’ troppo silenzio da parte dell’arte?

«Sì, decisamente. Qualcosa si è fatto, ma ben poco. È poco comprensibile, ma devo prenderne atto. Sarà uno degli argomenti che toccheremo nel concerto. Abbiamo delle colpe con cui fare i conti. Storicamente c’è chi ha raccontato che la Palestina non esiste. Oggi c’è quello che io chiamo “genocidio”. Non si tratta di essere antisemiti, ma di riconoscere che c’è un massacro in corso e di volerlo fermare».

Quanto è politica in questo momento storico la musica?

«Quanto è politica, dipende. Lo decide, di volta in volta, chi la produce, chi la sceglie, chi la va ad ascoltare. Poi possiamo anche dire che è sempre politica perché mette insieme le persone e dà loro un’emozione, un pensiero, persino un obiettivo. Nella migliore delle ipotesi e, forse, nella più semplice, è una medicina. E ci serve. Per le nuove generazioni è spesso l’unico spazio in cui si sentono protette e capite, in cui sentono di avere un’identità e un Io. Per natura le ho sempre affidato qualche compito, che fosse leggero o pesante. Senza mai fare distinzione, come nella vita. È superficialità e profondità. E nella musica è giusto che sia così».

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