- Qualche tempo fa si vociferava che andasse in giro con un biglietto in tasca sul quale aveva scritto: “Don DeLillo non concede interviste”. Il misterioso romanziere ritorna in Italia grazie alla casa editrice Marotta&Cafiero, con la raccolta di saggi Nelle rovine del futuro.
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In queste pagine DeLillo racconta anche come ebbe l’idea del suo iper romanzo, Underworld, uno degli affreschi epici del secolo scorso. In lui convive una dissomiglianza di talenti e indole, di chi comprende il mondo e di chi vaneggia paranoicamente sul futuro.
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DeLillo ha pensato che per gli scrittori fosse possibile influenzare la vita culturale di quel mondo; poi, però, ha cambiato idea e iniziò a pensare che il posto dei romanzieri l’avessero presto i terroristi. In uno dei saggi racconta come l’undici settembre 2001 sconvolse l’America e ovviamente anche lui.
Pare sia un uomo molto riservato. Assai riluttante, soprattutto nei confronti dei giornalisti; con loro farebbe proprio a meno di parlare dei suoi romanzi. Nei primi dieci anni di attività letteraria, non concesse neanche un’intervista. Qualche tempo fa si vociferava che andasse in giro con un biglietto in tasca sul quale aveva scritto: “Don DeLillo non concede interviste”. Nelle occasioni in cui deve presentare i suoi romanzi, ha mostrato spesso quel talento innanzitutto statunitense di sbrigarsela rapidamente quando le domande non meritano il suo tempo.
Va ricordato, ad esempio, cosa rispose quando, in occasione del tour per Zero K, il romanzo pubblicato da Einaudi nel 2016, gli venne fatta una domanda che faceva più o meno così: nelle ultime due pagine del romanzo il protagonista rimane sconcertato dalla bellezza del sole che inonda di luce i grattacieli e le strade di Manhattan, è forse un’avvisaglia di speranza?
E così il misterioso romanziere dalla spiccata vocazione apocalittica, il “poeta laureto del terrore” come lo ha definito Martin Amis, colui che quando esordì ambientò l’ultima scena del romanzo nella piazza di Dallas in cui era stato assassinato John Fitzgerald Kennedy, quella volta dovette specificare che no, quella palla di fuoco rossastra che compariva nell’ultimo capitolo di Zero K nelle sue intenzioni non aveva nulla di speranzoso.
Oltre a quelli che già conoscevamo come suoi, soltanto due anni fa ha ufficialmente riconosciuto la paternità di Amazons, un finto memoir di una giocatrice di hockey su ghiaccio, pubblicato nel 1980 e firmato allora con lo pseudonimo di Cleo Birdwell.
L’arrivo e il ritorno in Italia
Prima di Einaudi, che in Italia gli ha permesso di ottenere tutta l’attenzione che ogni sua opera merita da quando esordì nel 1971, qui da noi Don DeLillo era arrivato grazie all’editore napoletano Tullio Pironti.
Era il 1991 e il romanzo si intitolava Libra. Decise di raccontare l’assassinio di Kennedy dando voce Lee Harvey Oswald, e lo fece quando scoprì che quello abitava ad appena sei o sette isolati di distanza da dove abitava lui. Adesso, dopo oltre trent’anni da quella prima traduzione italiana, il grande scrittore americano ritorna straordinariamente in Campania.
È infatti la piccola casa editrice Marotta&Cafiero a pubblicare una raccolta di suoi saggi. Si intitola Nelle rovine del futuro ed è stata tradotta da Ercole Leo e illustrata da un duo di creativi ateniesi che si fa chiamare Frank Moth.
Marotta&Cafiero ha la redazione in uno spazio conosciuto come La Scugnizzeria, tra il comune di Melito e il quartiere napoletano di Scampia. E nei centoquaranta metri quadri della Scugnizzeria c’è davvero di tutto, tra cui un centro di formazione per i giovani e un laboratorio di restauro di libri per l’infanzia.
Negli ultimi anni Marotta&Cafiero hanno già compiuto il prodigio di pubblicare Stephen King, Ian McEwan e Daniel Pennac. Ora tocca a DeLillo. Lui, figlio di italiani originari di un paese dell’entroterra molisano, Montagano, ed emigrati all’inizio del Novecento, riappare adesso a soli centoquarantasette chilometri di distanza e a sole due ore di macchina dalla casa dei genitori, ora in rovina.
Se il lettore più stimabile, come scrive Vladimir Nabokov, non si identificherebbe con i personaggi di un romanzo, «ma con la mente che ha concepito quel libro», allora nelle pagine di Nelle rovine del futuro avrà di che divertirsi.
Dentro la calotta cranica
Don DeLillo, ottantasei anni il prossimo novembre, dà libero accesso alla sua calotta cranica. Al processo di creazione artistica altrimenti solitario. Si potrebbe dire, leggendo almeno un paio di questi pezzi, ecco come partì la palla da baseball in quella celeberrima partita al Polo Grounds di New York, nell’ottobre del 1951, tra Giants e i Dodgers, nello stesso giorno in cui l’Unione sovietica faceva esplodere una bomba atomica, quella palla lanciata in aria sulla cui traiettoria arcuata DeLillo avrebbe realizzato Underworld.
In queste pagine DeLillo, infatti, racconta anche come ebbe l’idea del suo iper romanzo, uno degli affreschi epici del secolo scorso. Anni fa ha dichiarato: «Io non sono certo di quello che penso, finché non scrivo - devo scrivere per comprendere ciò che penso. La scrittura è un estremo atto di concentrazione».
In queste pagine lo vediamo mentre si concentra, in un isolamento estremo, mentre ancora custodisce le sue storie nella testa e nel suo studio, prima che queste diventino i romanzi che conosciamo.
Il più delle volte tra l’intellettuale e lo scrittore c’è la stessa differenza che separa un medico che diagnostica la malattia e un paziente brontolone che, a capo chino, in sala d’aspetto, congettura sui propri sintomi, su quando e su dove potrebbe avere contratto il malanno, e se ora guarirà mai. In Don DeLillo convive forse questa dissomiglianza di talenti e d’indole, di chi comprende il mondo e di chi vaneggia paranoicamente sul futuro.
In occasione di un’intervista concessa a Giuseppe Genna, Don DeLillo disse di lavorare come Gerhard Richter, il pittore che affermava di sentire «quando un monocromo o una tela astratta sono finiti poiché non c’è più nulla da aggiungere o togliere». Anche lui sente d’istinto, d’intuito quando il romanzo è finito. Non perché durante la stesura del libro abbia predisposto schemi o scalette: non ne prepara.
Ha spesso con sé un taccuino, dice, prende qualche piccolo appunto, ma niente più. Non ha bisogno di schemi la lingua della paranoia, non ha bisogno di scalette la lingua della fine dei tempi. Si apre e si chiude a Manhattan tra le macerie della torre nord un attimo dopo la collisione del primo aereo, L’uomo che cade, il romanzo pubblicato nel 2007.
Romanzieri e terroristi
Il suo mondo è finito spesso ostaggio del terrore politico. Per anni DeLillo ha pensato che per gli scrittori fosse possibile influenzare la vita culturale di quel mondo; poi, però, ha cambiato idea e già quando scrisse i Nomi - la storia di un americano che svolge analisi di rischio per una compagnia assicurativa e in Grecia sfiora una setta che si dà a omicidi rituali - iniziò a pensare che il posto dei romanzieri l’avessero presto i terroristi, e che da tempo fossero loro, con le bombe e il fanatismo, a segnare le nostre coscienze.
Ed è anche di questo che DeLillo scrive nel primo saggio compreso nel libro appena pubblicato da Marotta&Cafiero, raccontando come l’undici settembre 2001 sconvolse l’America e ovviamente anche lui, che solo un mese prima passeggiava lungo lo stesso tracciato che nei giorni dopo l’attacco fu percorso da una fiumana di camion dei vigili del fuoco, ambulanze e veicoli della polizia a sirene spiegate.
«Quando la tecnologia raggiunge un certo livello, l’uomo comincia a sentirsi un criminale», scriveva in Running Dogs, un romanzo che è la caccia al presunto filmino pornografico che Adolf Hitler avrebbe girato durante i suoi ultimi giorni nel bunker.
Raccontò poi in un’intervista a Francesca Borrelli (raccolta poi in Maestri di finzioni, Quodlibet) che quel passo nasceva dalla constatazione che l’umanità fosse più che destinata, ormai già abituata a venire sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro. Ha sempre visto il futuro, si direbbe.
Nella Stella di Ratner la cricca dei migliori scienziati del mondo, tra cui un ragazzino di nome Billy Twilling, convenuti in un luogo segreto dell’Asia centrale, stanno elaborando un linguaggio transagalattico per comunicare con una specie extraterrestre appena scoperta.
Quando gli alieni avranno conquistato la terra e avranno imparato la nostra lingua, sarà un romanzo di DeLillo che leggeranno per comprendere qualcosa di quei bipedi da tempo estinti. Leggeranno Rumore bianco o forse Underworld.
«Due sono ogni anno i premi Nobel della letteratura: uno è quello che viene assegnato al vincitore, l’altro è quello che non viene assegnato a Borges», diceva Giuseppe Pontiggia. E da parecchio tempo si può affermare la stessa cosa, che tutti gli anni siano nuovamente due i Nobel: uno spetta al vincitore che va a ritirare il premio a Stoccolma, e l’altro è quello che non viene assegnato a Don DeLillo.
E sarà così anche in futuro, finché quegli alieni avranno letto i suoi romanzi e allora finalmente lo premieranno con una medaglia interstellare per essere stato indubbiamente il migliore di tutti.
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