Il crollo del muro di Berlino, la prima volta che ho ascoltato i Nirvana e la voce di Kurt Cobain, la stagione di Mani Pulite. Le rivoluzioni sono sempre due passi avanti e uno indietro. Non dobbiamo avere la vanità di vedere di persona le cose cambiare, ma bisogna contribuire al movimento
- Andai a Berlino per la prima volta nel 1987. Il muro era ancora in piedi e la parte ovest della città era una pozzanghera all'interno della Germania est.
- Kurt Cobain aveva un anno giusto meno di me. Essere ingenui vuol dire avere la possibilità di essere rivoluzionari. Quando nell’inverno del 1991 sentimmo i Nirvana trasmessi per la prima volta capimmo che quello che avevamo dentro stava vincendo.
- Le rivoluzioni sono sempre due passi avanti e uno indietro. Me lo sono ripetuto mille volte: la cosa più importante sono gli ideali, la visione, la direzione. Non si torna indietro se si salvano quelle. Non importa quanto tempo ci vuole. Importa crederci e noi ci credevamo.
Andai a Berlino per la prima volta nel 1987. Il muro era ancora in piedi e la parte ovest della città era una pozzanghera all'interno della Germania est. Un esperimento, una specie di paese dei balocchi, di isola che non c'è, di zoo, dove in nome della propaganda occidentale tutto era permesso. Un magnete per ogni genere di artisti, per chi credeva in una alternativa sociale possibile, per ogni genere di imbecilli. Ci andai con un mio amico tedesco, Anton, detto Peng dal soprannome del nonno che in gioventù aveva sparato a un agente delle tasse.
Partimmo da Monaco di Baviera, attraversammo in treno prima la Germania ovest e poi una parte di Germania est. Io, con il naso incollato al finestrino a guardare le autostrade di tartan rosso che, per lunghi tratti, correvano parallele ai binari, cercavo di tenere il conto delle pochissime automobili che vedevo, perlopiù vecchissime Trabant, le macchine di Nonna Papera, azzurre, rosse, gialle. Anton passò il viaggio ad ammazzarsi di canne.
In prossimità di Berlino finalmente gli parlai e gli dissi che la logica imponeva di scendere al capolinea. In mezzo a una cortina di fumo densissimo non cercò neppure di aprire gli occhi e fece un cenno con la testa che io interpretai come un sì.
Superammo quindi Bahnhof Zoo, la stazione del film Noi ragazzi dello zoo di Berlino e arrivammo ad Alexander Platz, il capolinea.
Il treno fu circondato dalla polizia dell'est con mitra a tracolla e noi fummo subito arrestati per aver cercato di entrare illegalmente in Germania est.
Ci interrogarono come spie e capirono che eravamo due coglioni, quindi ci rilasciarono caricandoci sulla metropolitana che tornava all'Ovest e buttandomi il passaporto in faccia, davanti agli altri passeggeri. Il sottufficiale mi guardò ed esclamò ridendo «italienisch!».
Un crollo atteso
Quando il muro cadde per noi non fu una sorpresa.
A Berlino il pericolo, la precarietà, la distanza dal nostro mondo reale erano le prime cose che potevi annusare nell'aria, ma qualche mese prima della caduta l'odore era cambiato. Nessun segnale, solo istinto. Quando la storia da terribile diventa grottesca sai che non può durare e noi sorridevamo ironici alle guardie sulle torrette di Kreuzberg, passando rasente al muro e toccandolo con la mano. Lo sapevano anche loro quando ci rispondevano con sorrisi di disprezzo, invitandoci a scavalcare per scoprire se era tutto vero. Speravano di prolungare il più possibile l'unico senso per il quale erano stati cresciuti e avevano vissuto ma in realtà cercavano di diventare nostri complici. La complicità che la vittima cerca col carnefice.
Dentro di noi, che all'epoca avevamo vent'anni, l'Europa non era neppure un obiettivo, era un fatto.
Viaggiavamo in lungo e in largo, dormendo soprattutto in treno per risparmiare soldi. Inghilterra, Germania, Olanda, Francia, Svezia. Ci facemmo amici dappertutto, scegliendoli a vista in un bar, sedendoci senza chiedere permesso al loro tavolo e cominciando a bere con loro.
I miei genitori avevano una specie di cascinale in piena campagna, a ovest di Milano. D’estate amici da tutta Europa mi raggiungevano lì, campeggiando nel giardino davanti alla casa.
Gavin, David, Mark e Michelle dall'Inghilterra, Anton, Marion, Werner, Grufti, Sabine e Gunther dalla Germania, Ja dalla Svezia, Cristophe dalla Francia…
Dormivano dappertutto. Sui divani, sui marciapiedi davanti casa, sul terrazzo, in salotto. La mattina i miei genitori dovevano mettersi in fila per andare in bagno e mio padre, dopo qualche giorno, decise di prendersi una stanza d'albergo.
Tornò dopo una settimana preso dal rimorso e dal dubbio di perdersi qualcosa di unico e cominciò a cucinare per tutti carne alla brace nel forno che aveva costruito con le sue mani, appena fuori dal portico di casa.
Mia madre fu iniziata alla meditazione dai miei amici tedeschi e ricambiò permettendogli di stare in cucina dietro di lei mentre, china sul pentolone di acqua bollente, respirava fumenti di olio balsamico.
Insieme al muro crollò anche il regime in Polonia, la dittatura di Ceausescu in Romania, crollò l’Unione Sovietica. Arafat e Rabin si strinsero la mano e sembrò per un momento che anche la questione palestinese fosse stata travolta dall'ineluttabilità del cambiamento.
Cominciarono a formarsi i primi movimenti di pensiero comune. Movimenti trasversali che includevano no logo, no global, gioventù cattolica, pensionati, black bloc, impiegati e che sarebbero poi stati spazzati via a Genova, durante il G8.
Poi arrivò MANI PULITE .
La verità stava trionfando. Pacificamente. Sembrava così semplice, così logico, perché non era successo prima? Gli occidentali erano stati davvero così vigliacchi da non tentare mai una rivoluzione pacifica?
Oppure le rivoluzioni possono essere fatte solo da gente che non si è ancora intossicata della propria intelligenza, che non cerca di capire, di controllare, di trovare la migliore soluzione possibile. Gente che ancora sogna. Eravamo noi la prima generazione che era tornata a sognare dopo la controcultura?
La voce di un cambiamento
Kurt Cobain aveva un anno giusto meno di me.
Essere ingenui vuol dire avere la possibilità di essere rivoluzionari. Quando nell’inverno del 1991 sentimmo i Nirvana trasmessi per la prima volta su una radio commerciale italiana capimmo che quello che avevamo dentro stava vincendo.
Quello che per noi era stato naturale da sempre adesso era naturale per tutti.
Eravamo stati i reietti durante la truffa degli anni ‘80, l'edonismo reaganiano, l'arroganza dei socialisti, il “se non ce l'hai fatta entro i 30 anni sei un fallito”.
I Nirvana erano i nostri fratellini minori ed erano arrivati a vendicarci e a farci sentire eroici nell'aver pensato, prima degli altri, che il mondo non solo potesse cambiare ma stesse già cambiando.
LE CHITARRE, LE URLA, L’ATTITUDINE PRIMA DELLA FORMA, IL RIFIUTO DELL’IPOCRISIA, DI UNA STRATEGIA, IL DISINTERESSE PER IL SUCCESSO COMMERCIALE, L’AFFERMAZIONE DELLA VERITÀ E DELLA SINCERITÀ, ANCHE QUANDO NEGATIVE, COME VALORI ASSOLUTI.
Noi vivevamo già così, era il mondo che finalmente ci aveva raggiunto.
Da Berlino a Milano
Tornai a Berlino quell'autunno per suonare al Die Insel, un locale che si sviluppava sui tre piani di un torrione medievale a guardia di un ponte sul fiume. Un posto da fiaba che sarebbe diventato di lì a breve un covo di neonazi.
Berlino era piena di Volkswagen nere. Polo nere. La moneta dell’Est, con l'unificazione, era stata convertita in marchi dell’Ovest ad un cambio incredibilmente vantaggioso. Era una mossa per aiutare l’economa dell’Est e accompagnarla al cambiamento.
La prima cosa che fecero i tedeschi con quei soldi fu di comprarsi una Volkswagen Polo. TUTTI comprarono una Polo. Nera.
La città dove potevi barcollare ubriaco in mezzo alla strada alle sei di mattina, rischiando al massimo di scontrarti con un altro ubriaco, era un enorme bolo di traffico. Nero.
Ci sarei tornato molte volte, nella speranza disperata di ritrovare qualcosa che non poteva più esserci.
Ci ritrovammo invece davanti al palazzo di giustizia a Milano, per appoggiare pubblicamente il pool di Mani Pulite e il nostro Robespierre, Antonio Di Pietro, contestare chi li stava ostacolando e vendicare la nostra vanità di giovani rivoluzionari conquistando un posto nella storia. Ricordo perfettamente quel giorno. Le centinaia di persone che si erano radunate, compresi i miei amici e la mia fidanzata del tempo, cominciarono a inveire in una direzione e quando la folla iniziò a lanciare le monetine anche loro tirarono fuori di tasca tutti gli spicci che avevano e li tirarono nella stessa direzione. Cercai di fermarli. Chiedevo urlando disperato alla rinfusa se sapessero contro chi le stavano tirando. La mia ragazza si voltò calma e con un sorriso mi disse di no.
Venne fuori che forse in Romania Ceausescu era stato deposto da qualcosa che assomigliava più a un colpo di stato che a una rivoluzione.
Clinton, che aveva così ben orchestrato il riavvicinamento fra Rabin e Arafat, fu messo in ginocchio dalla ragazza che si metteva in ginocchio sotto la sua scrivania.
La Perestrojka di Gorbaciov stava provocando la disgregazione dell’impero sovietico, Eltsin prese il potere sventando un colpo di stato e i micro potentati regionali, non più controllati dal comitato centrale, cominciarono a collaborare con le mafie e a vendere uranio impoverito a tutto il mondo. Forse il papa, Giovanni Paolo II, non era stato eletto a caso.
Non dobbiamo avere la vanità di vedere di persona le cose cambiare, ma bisogna contribuire al movimento.
Le rivoluzioni sono sempre due passi avanti e uno indietro. È la fisica che lo dice: a ogni forza applicata su un punto corrisponde una forza uguale e contraria.
Di Pietro, ad esempio, aveva accettato una Mercedes in regalo.
Me lo sono ripetuto mille volte: la cosa più importante sono gli ideali, la visione, la direzione.
Non si torna indietro se si salvano quelle. Non importa quanto tempo ci vuole.
Importa crederci e noi ci credevamo.
Lo sentii alla televisione, un pomeriggio di aprile del 1994.
Dissero che si era sparato un colpo di fucile.
Aveva giusto un anno meno di me.
Spensi la tv e uscìi di casa in fretta e furia. Piovigginava come solo a Milano può piovigginare, con fastidio. Avevo dimenticato di fare benzina, ero in ritardo per la partita di calcetto e il mondo non sarebbe cambiato.
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