Quando ottieni il tuo primo cartellino di iscrizione a un club sportivo, affiliato a una federazione nazionale, che a sua volta dipende da una federazione internazionale, sotto la globale egida del Comitato Olimpico (CIO), di fatto stai staccando un biglietto di partenza per un viaggio che potrebbe svilupparsi lungo un’insidiosa zona di confine: un territorio con le sue regole, una storia ma anche tanti punti di domanda.

Lo sport agonistico vive in profonda contraddizione: la sua essenza è andare oltre i limiti, spostarli sempre un po’ più in là (motto olimpico «citius, altius, fortius, communiter» docet) ma al tempo stesso teme che si mettano in discussione le regole con cui funziona. In altre parole: se esisti per celebrare ciò che non è mai stato fatto e scoprire nuove potenzialità del genere umano, il modo con cui reagire a ciò che non corrisponde agli schemi del passato non può essere: «si è sempre fatto così».

Ciò nonostante, il modello organizzativo dello sport agonistico ha costruito nel conservatorismo la sua difesa che, pur se legittima, ignora, esclude, opprime i sogni di alcuni suoi protagonisti, talvolta, anche le loro vite: sono «incidenti di percorso» per il cinismo del sistema sebbene, in realtà, siano i piccoli, i singoli esseri umani costretti a soccombere alla legge del più forte.

La discriminazione

Talvolta però il destino personale incontra il destino di un popolo e, allora, tutto l’ordine prestabilito può cambiare. Quando la corsa di Caster Semenya si è dovuta fermare è stato il “suo” Sudafrica a tenderle la mano creando la congiuntura che potrebbe riscrivere le regole dello sport del futuro.

La denuncia dello Stato di Israele da parte del Sudafrica, alla Corte Internazionale di Giustizia, ha preso tutti in contropiede ma forse non proprio tutti. «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi» diceva Mandela, in ogni occasione in cui portava l’attenzione sul sistema di oppressione e dominazione israeliano, facendo un parallelismo con l’apartheid inflitta ai nativi sudafricani. Mentre l’occidente arrancava perfino nel chiedere il cessate il fuoco, il Sudafrica dava lezione di giustizia e legalità; un’azione potente che sa di apertura di una nuova stagione di emancipazione del Sud del mondo.

La leadership sudafricana era ed è anche conseguenza di un diritto conquistato sul campo, inteso non solo metaforicamente, poiché pur se tra contraddizioni e difficoltà ancora aperte, la moderna società sudafricana è il frutto di un seme che Nelson Mandela ha fatto germogliare sul campo da rugby. Era «lo sport dei bianchi» che aveva visto giocare dalle guardie carcerarie durante i suoi 27 anni di prigionia, perciò che i sudafricani nativi lo accettassero e praticassero sarebbe stato uno strumento prezioso di perdono e di integrazione sociale. La Coppa del mondo 1995, conclusa vittoriosamente per il Sudafrica, fu l’apoteosi di quell’intuizione. L’eredità positiva di quell’esperimento sociale, ha creato una base comune di valori e ideali su cui costruire il futuro democratico del Paese.

Poteva dunque un popolo che, grazie allo sport, ha trasformato la disperazione in speranza, ha rotto le barriere razziali, ha irriso ad ogni tipo di discriminazione (parafrasando alcuni punti di uno dei più potenti discorsi nella storia dello sport, pronunciato da Mandela durante la cerimonia inaugurale dei Laureus World Sports Awards) poteva quello stesso popolo permettere che proprio lo sport fosse causa di disperazione, discriminazione, di violazione dei diritti umani?

La sua parabola

Caster Mogkady Semenya era una bambina più grande, più forte, più veloce delle altre bambine. Ha iniziato presto a correre, perché era una delle pochissime possibilità di fare sport che il suo villaggio sudafricano le offriva. A soli 18 anni aveva già vinto il primo dei tre titoli mondiali negli 800 metri, una delle discipline ritenute più dure nell’atletica leggera; a 25 anni aveva messo in curriculum anche le due medaglie d’oro olimpiche dei Giochi di Londra 2012 e Tokyo 2016. Purtroppo non sapremo mai quanti altri titoli avrebbe potuto vincere, quali record avrebbe battuto, perché, ancora giovane, Caster lascia l’atletica: per lei lì, in quel mondo, non c’è più spazio.

Per restarci la federazione internazionale le chiede di diventare un’altra, di sottoporsi a pericolosi trattamenti ormonali per ridurre i suoi naturali livelli di testosterone. Dopo essere stata analizzata nei più profondi e minuziosi dettagli e ciò nonostante condannata da chi la riteneva un uomo, dopo che le sue analisi biologiche sono state date in pasto alla curiosità dei media e aver dovuto parlare del proprio sesso al mondo intero, dopo aver tentato di difendersi dalla morbosa invadenza di chi la definiva uno scherzo della natura, dopo aver tentato di seguire i trattamenti che la federazione le imponeva per «garantire l’equità» nelle competizioni ma non la tutela della sua salute, Caster, sfinita, si ritira.

Gli 800 metri, quella specialità ritenuta così dura domata e dominata tante volte, era niente rispetto a ciò che il sistema sportivo aveva in serbo per lei. «Le gare sul campo non mi interessano più – dice – ora voglio vincere la gara per essere me stessa».

Il caso giudiziario

In questa nuova sfida, Caster non è sola, con lei c’è tutto il suo paese. Per oltre tre decenni (dal 1964 al 1992) il Cio ha escluso il Sudafrica dai suoi Stati membri a causa del regime di apartheid; tre generazioni di atleti sudafricani sono stati immolati sull’altare dell’olimpismo per dimostrare attraverso lo sport che la discriminazione va combattuta. Anche per questo il Sudafrica non ha paura, non teme di far notare alle istituzioni sportive se sono incoerenti rispetto ai principi che professano. Così il Sudafrica ha spinto il “caso” di Caster fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ha condannato la Svizzera per violazione della Convenzione relativamente agli articoli 8,13 e 14 ovvero quelli relativi al divieto di discriminazione, al rispetto della vita privata e al diritto ad un ricorso effettivo.

Atleteintersex

Perché la Svizzera? Perché è lo stato dove ha sede la federazione internazionale e, in quanto tale, risponde delle violazioni perpetrate sul suo territorio. By-passare le istituzioni sportive era l’unico modo per avere un giudizio neutrale su una vicenda “sportiva” si ma solo in origine, poi disumana nella sua gestione. Già, quando firmi il cartellino di affiliazione ad una società agonistica e inizi quel viaggio che può portarti verso le terre inesplorate, devi accettare di farlo con le regole della giustizia sportiva e non con le leggi della giustizia ordinaria.

Il Sudafrica ha scelto di stare a fianco di Semenya nell’attraversamento di queste zone buie, aprendo la via a una sentenza storica. Una sentenza che sfida l’idea che gli organismi sportivi rispettino i principi dei diritti umani, che invita a riflettere sul paradosso dell’essere atleta come una limitazione dell’essere una persona, che interroga su quando i corpi delle donne rispondono ai criteri del fair play.

Domande a cui lo sport deve trovare risposta perché c’è un mondo, come dimostrato dal Sudafrica, a cui il politically correct non appartiene.

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