«Ha paura, ma il fatto che l’umanità o una sua buona parte sparisca insieme a lui gli è di conforto, e si crogiola al pensiero di tutti quelli che gli hanno voltato le spalle: è contento che la loro fine arrivi insieme alla sua, ché la notte esiste da prima ed esisterà dopo, e allora che venga per tutti e si faccia finita».

Siamo alla penultima pagina di Che venga la notte, Nottetempo, secondo romanzo di Alessandro Ceccherini dopo l’esordio – davvero notevole – de Il mostro. Il protagonista, Donato Bilancia, considerato uno dei pochi, autentici serial killer nella storia del nostro paese, è ormai da tempo in carcere, condannato a ben tredici ergastoli e reo confesso di diciassette omicidi, commessi tra il 1997 e il 1998 in Liguria e nel basso Piemonte.

Ogni tentativo di invocare un pentimento – probabilmente simulato –, l’infermità di mente – territorio notoriamente scivoloso – o l’esistenza di un complice è miseramente fallito, e a Bilancia, minato dal Covid, non resta che rifiutare le cure e attendere la morte, augurandosi che l’epidemia colpisca anche le persone che non hanno prestato ascolto ai suoi appelli. Che venga la notte, appunto, e per tutti.

Genere poco italiano 

Come già nel Mostro, Ceccherini corteggia e sfiora un genere letterario che vanta un notevole successo commerciale nel mondo anglosassone e che annovera al suo interno capolavori come A sangue freddo di Capote o I miei luoghi oscuri di James Ellroy: il cosiddetto true crime.

In altre parole, il racconto, al confine tra romanzo e nonfiction, di casi criminali, con un’alternanza tra esplorazione del male nelle sue radici psicologiche e disamina del contesto storico e sociale nel quale una vocazione a delinquere si forma e giunge a maturazione.

Un genere, però, ben poco radicato sulla scena italiana, nella quale alla parola crime si accompagna pressoché sempre il termine novel, come se l’unica strada praticabile per chi voglia immergersi nel lato oscuro di un individuo o di un intero paese sia quella della narrativa d’invenzione.

Il progetto che Ceccherini aveva già lanciato con Il mostro – e che, con Che venga la notte, viene ulteriormente rafforzato – è quello di una via italiana al true crime che, nell’affrontare la vita e le vicende di un omicida seriale, eviti tanto di cadere negli psicologismi o in un rigore tecnico da profiler, quanto di proporre una corrispondenza banale e meccanica tra la deriva criminale del protagonista e il contesto sociale con il quale si trova a interagire.

E che accetti, piuttosto, l’oggettiva impossibilità di comprendere fino in fondo le ragioni che si nascondono dietro il male, facendone il punto di partenza per una narrazione libera, complessa, sorretta da un ritmo implacabile e da un genius loci che, dalla Toscana rurale del Mostro alla Liguria aspra nella quale, tra frane e inondazioni, si muove e agisce Donato Bilancia, diventa cifra tematica e marker stilistico irrinunciabile.

Il genius loci 

Basti, a titolo d’esempio, la forza narrativa e descrittiva con la quale viene evocato l’entroterra ligure in un episodio della prima parte del romanzo, nel quale Bilancia, poco più che ventenne, parte in vespa alla volta del Passo del Turchino, seguito dall’amico e complice Miccia a bordo di una Fiat 500, per smerciare una partita di droga a quattro hippy (ai suoi occhi, “tossici perdigiorno che non valgono niente, capaci solo di spacciare o rubare”): «Percorre i primi chilometri, poi la strada inizia a inerpicarsi tra le montagne che rendono opprimente l’orizzonte, dentro le gallerie che amplificano il ronzio della Vespa facendolo accelerare per il fastidio, in mezzo a un nulla circondato di boschi, dove qua e là spunta qualche rara abitazione isolata. Fa freddo, non si è coperto abbastanza e impiega più di mezz’ora per raggiungere il volto giallo di donna abbozzato sul tronco di una roverella a bordo strada, poi conta tra i trecento e i quattrocento metri e raggiunge l’imbocco di una viuzza di campagna che alla sua destra s’inoltra in mezzo alla vegetazione bassa e fitta del sottobosco».

Nei ringraziamenti, Ceccherini sottolinea il lavoro di ricerca che gli è stato necessario per immergersi nel mondo di un serial killer, ma soprattutto nella città di Genova e nelle trasformazioni sociali e urbanistiche che ne hanno scandito la storia tra i primi anni Sessanta e la fine degli anni Novanta: interviste e colloqui con i “ragazzi di Piazza Martinez”, il luogo nel quale il giovane Donato era cresciuto tra poche gioie e tante amarezze e delusioni; frequentazioni ripetute della biblioteca Berio, vero e proprio archivio cittadino; incursioni guidate nel dialetto genovese.

Un lavoro molto simile a quello necessario per Il mostro, del quale Che venga la notte – per quanto possa apparire paradossale, essendo l’intera storia filtrata attraverso il punto di vista soggettivo di Bilancia – mantiene la coralità, puntando su un coacervo di voci rese con il massimo realismo e sulla comparsa in scena di personaggi pubblici capaci di segnare a fondo la storia della città e di narrarne l’evoluzione, da Fabrizio De André a Beppe Grillo.

In tutta la prima parte del romanzo sembra sia Genova tutta a parlare attraverso le vicende di un piccolo delinquente di strada che si trasforma in spacciatore prima, ladro professionista poi e infine giocatore d’azzardo.

Un individuo ai margini, respinto dalla propria famiglia disastrata (il fratello Michele si suicida nel 1987, gettandosi sotto un treno insieme al figlio di quattro anni), animato da un profondo disprezzo per le donne e da irrefrenabili manie di grandezza, ma soprattutto convinto che «la gente non lavora con lo scopo di far progredire il mondo ma solo per uno stipendio: sono i soldi a far girare le cose e a tirare le redini del carro, sono i soldi che guidano, la massa segue e sopravvive, non ha idee, non ha meriti se non quello di essere viva, altro che comunismo».

La traiettoria 

Soldi e sesso comprato: il Donato Bilancia della prima parte del romanzo sembra quasi l’incarnazione sottoproletaria del Gordon Gekko di Wall Street, nell’avidità ma anche nell’indifferenza verso il prossimo, nell’incapacità cronica di stringere rapporti non mercenari, nella tendenza a trattare il denaro come indicatore di status, svincolato da qualunque logica produttiva. Ma non è – o non è solo – la sua natura e la sua carriera di delinquente a spiegare la catena di delitti che domina la seconda metà del libro, in una sequenza che Ceccherini racconta in tono quasi impassibile, sottolineandone la ripetitività e l’apparente insensatezza.

Donato comincia a uccidere eliminando uno dopo l’altro i due titolari della bisca nella quale ha perso tutti i suoi soldi; si trasforma prima in serial killer di prostitute e poi nell’assassino dei treni, in un crescendo delirante nel quale le manie di grandezza che ne avevano alimentato la traiettoria umana vengono insieme sublimate e impoverite.

In fondo, Donato uccide con una ritmica da catena di montaggio, in una coazione a ripetere che lo rende più simile ai tanto disprezzati lavoratori che non ai criminali professionisti cui per tanto tempo si era ispirato. E anche il romanzo perde il proprio respiro picaresco, rinuncia alle variazioni di ritmo, si trasforma nella cupa, implacabile anatomia di un abisso.


Che venga la notte (Nottetempo 2024, pp. 336 euro 19) è un libro di Alessandro Ceccherini

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