Giovanna J. Giò è una donna di straordinaria bellezza e micidiale crudeltà. Ritiene di essere affetta da Sindrome Premestruale Perenne di Tipo 1, patologia che la porta a disprezzare chiunque.

Se infatti le donne di Tipo 3, per via degli estrogeni, sono ben disposte nei confronti del genere umano e degli uomini in particolare, e le donne di Tipo 2 tengono a bada il disordine ormonale con shopping compulsivo e pinte di prosecco, le donne di Tipo 1 – ceppo al quale appartiene Giovanna – non hanno sbalzi di umore, perché sono sempre di pessimo umore. La loro è, per l’appunto, una sindrome premestruale perenne.

A intervalli regolari, Giovanna scrive lettere infuocate all’Inps perché questa “malattia” venga riconosciuta come invalidante: in tal modo lei potrebbe ricevere un assegno mensile, trascorrere il tempo leggendo i capolavori incompresi della letteratura americana e lasciare il suo posto di dottoranda mal pagata in un’università romana.

Giovanna ha infatti due nemici giurati: il mondo intero e il professor Enrico Mazzetti.

A 74 anni suonati, Mazzetti non vuole mollare la cattedra malgrado non sappia distinguere Bukowski da John Fante, per il quale lei nutre un amore incondizionato e a cui racconta dentro di sé i propri piani di distruzione e di rinascita. E mentre il direttore dell’Inps riesce pian piano a scorgere una certa validità nelle folli istanze di invalidità di Giovanna, lei trova un’inquietante alleata di Tipo 1 in grado forse di portare Mazzetti al pensionamento.

Graffiante, ironico, caustico: un romanzo trascinante e divertentissimo che mette a nudo, spingendoli al paradosso, i mali del nostro tempo, dalla questione di genere al precariato, dai rapporti di coppia alla salute del pianeta.

Al suo esordio Roberta Casasole scrive in un romanzo divertente e irriverente l’epopea selvaggia di una donna scatenata che non ha paura di nessuno e fa a pezzi ogni tabù. 

“E poi ci siamo noi, le donne di Tipo 1, con Sindrome Premestruale Perenne. L’amore ci sussurra all’orecchio dolci parole e noi gli gridiamo che non c’è campo. Donne che non hanno sbalzi di umore, perché sono sempre di pessimo umore. Noi siamo le elette.”

Giovanna stiracchiò le lunghe membra e si incamminò per il corridoio di marmo bianco verso l’ennesimo incontro con Mazzetti, l’uomo che tutti volevano morto pur prodigandosi nei modi più disparati per tenerlo in vita.

La sala riunioni era gremita di assistenti a diversi livelli di impotenza, dottorandi proiettati nell’abisso di una impossibile carriera accademica, cultori della materia che cenavano alla Caritas. Si guardavano l’un l’altra e pronunciavano frasi brevi e casuali per capire se qualcuno conoscesse il motivo di quella plenaria. C’era qualche novità? Una notizia importante? Forse Mazzetti andava in pensione? La parola “pensione” si diffuse in tutta la sala con la velocità di un virus polmonare.

Enrico Mazzetti entrò col suo sorriso sornione, convinto di essere sexy nonostante l’aspetto ripugnante. Capelli bianchi e radi su una testolina da passerotto, occhi umidi da blefarite cronica, un po’ di saliva ai lati della bocca, ossa fragili che gli avevano deformato la corporatura. Teneva la mano sinistra sempre in tasca, visto che la cuffia dei rotatori era andata e aveva una spalla dieci centimetri più bassa dell’altra. La destra, invece, a cui mancava il mignolo, sempre in vista come un santo in processione.

Si mise al centro della stanza. Si schiarì la voce. “Vi ho convocato oggi per rendervi partecipi di un momento molto importante della mia vita,” disse serio. “Credo di aver dato molto a questa università e voi ne siete la prova.” Lunga pausa. “Ho formato schiere di umanisti, alcuni dei quali sono andati a occupare posti di primo piano nel management di questo paese. Ho sempre cercato di trasmettere un sapere che, come amo dire, non indossa giacca e cravatta.” Guardò compiaciuto la sua camicia ciancicata. “La mia conoscenza è fatta di esperienza, di vita vissuta. I libri, sì, sono importanti, ma non c’è niente di più importante della realtà. E quella bisogna toccarla, non solo immaginarla, per quanto dura sia.”

Una luce si spense nel cuore di ognuno degli astanti: Mazzetti avrebbe di nuovo, per la miliardesima volta, raccontato la storia di Hemingway.

“No,” disse tagliando l’aria con il braccio destro e sbilanciando tutto il corpo in avanti. “Non racconterò di Hemingway, il grande Ernie, che ho avuto l’onore di conoscere, e vi prego di non chiedermelo. Basta parlare del passato, voglio guardare al futuro. Ho settantaquattro anni e sento che la mia vita non può esaurirsi nell’insegnamento.”

Tutti spostarono lo sguardo da un’altra parte, in aria, a terra, di lato, come quando ti sta arrivando in faccia una carezza e ti trovi in imbarazzo. Giovanna, invece, guardava già oltre la parete.

Al di là del muro, c’era l’enorme ufficio del professore. Giovanna si vedeva già al suo posto. Un posto comodo, nel punto più panoramico di quel piccolissimo paese in cui era ancora legale la schiavitù, in cui ognuno si adoperava per il benessere del sovrano, assecondandone ogni capriccio, facendolo sentire divertente, capace, utile. Bastava avere una frusta e un campanello per vivere bene lì.

“Di comune accordo con il rettore,” proseguì Mazzetti, “ho deciso di mettermi finalmente alla prova con quella che è la mia vera passione sin da bambino e che non ho mai smesso di coltivare, pur coi limiti di tempo che la carriera accademica comporta.”

Fece un giro su sé stesso guardando verso i muri colmi di orribili croste semiliquide che ritraevano lo stesso paesaggio, con colori ogni volta diversi. I dottorandi più anziani e gli assistenti annuirono con compiacimento.

“La mia generazione è diversa dalla vostra. Noi avevamo passione ed entusiasmo, avevamo il gusto della vita e sapevamo saltare da una cosa all’altra senza perdere mai il divertimento. A vedervi così giovani e così spenti, io mi sento male.”

Mazzetti fissò il pavimento, perso in questa riflessione antropologica. Si ridestò dalla sua interiorità con una teatrale alzata di testa, dolorosamente frenata dalla callosa gobba che gli delimitava la cervicale. Si portò la mano sinistra dietro il collo.

“Quindi vi annuncio,” disse serissimo, “che alla fine di questo semestre l’università organizzerà una grande mostra delle mie opere, finanziata dalla Banca di credito cooperativo di Tivoli.”

Ghiaccio e silenzio piombarono nella sala.

“Ovviamente,” continuò, “tutti dovrete partecipare all’allestimento e alla promozione. E tutti dovrete portare almeno cinque amici a visitarla. Se non li avete, fateveli, perché le presenze saranno registrate e collegate a ognuno dei vostri numeri di matricola.”

Un coro di “ma certo, professore, chi non vorrebbe partecipare”, di “sarà un piacere” e “mi ha messo addosso una grande curiosità” si levò alto, mentre le speranze collettive precipitavano nell’abisso.

“Bene, sì, grazie,” si schermì Mazzetti. “Ora potete andare. Chiedo solo ai miei tre collaboratori di rimanere.”

Pasquale Colella e Sonia Minzi giacevano come morti in posizione eretta, mentre il parquet stava prendendo fuoco sotto i piedi di Giovanna.

“Vi ho fatto rimanere per un motivo molto semplice,” disse Mazzetti sedendosi al grande tavolo di mogano completamente sgombro, eccezion fatta per un computer spento. “Non riesco a far funzionare la stampante. Ho preso i biglietti per Maurizio Battista stasera.”

“Sì, glieli ho presi io, professore. Si ricorda?” disse Sonia.

“Ma non me li ha stampati.”

“No, ma le ho mandato il pdf via mail. Le basta mostrarlo all’ingresso col cellulare.”

“Non so cosa sia un pdf e non posso mostrare all’ingresso qualcosa che non so cosa sia.”

“Certo, professore.”

“Allora qualcuno mi stampi questi biglietti.”

Colella si avvicinò al computer. Aveva due lauree, un dottorato e diverse pubblicazioni alle spalle. Sapeva come trattare dei biglietti per uno spettacolo comico. Dopo pochi secondi, i fogli uscirono dalla stampante.

“Ecco qua, professore,” disse porgendoglieli.

“Ma perché quando lo uso io questo coso non funziona mai?” fece lui.

“Ha premuto il tasto ‘stampa’?” chiese Colella. “Vede? Questo piccolo disegno qui, che somiglia proprio a una stampante.”

Il volto di Mazzetti si indurì.

“E questa sarebbe l’icona di una stampante? Buon dio, Colella, ma non vede che è un tritadocumenti?”

Pasquale Colella si avvicinò allo schermo e strinse gli occhi.

“Non lo avevo mai notato,” disse. Si allontanò dalla scrivania. “A proposito di documenti da distruggere, professore, le ricordo che fra due settimane abbiamo le sessioni di laurea.”

“Mm mm.”

“Se riuscisse almeno a scorrere l’indice delle tesi presentate…”

“Mm,” disse Mazzetti intento a cercare sul biglietto l’orario dello spettacolo.

“In particolare, mi permetto di segnalare il lavoro dello studente Lucchi che ha realizzato un interessante studio sulla produzione degli ultimissimi anni di Flannery O’Connor. Lucchi, professore, se magari se lo vuole segnare.”

Mazzetti si voltò verso di lui.

“Ma cosa blateri, Colella? Non vedo una tesi da quattordici anni almeno, da quella lì che si è presentata con quella cosa a fumetti su Bruce Lee.”

“Stan Lee.”

“E vuoi che ricominci ora che cambio lavoro? Lo sai che le tesi mi danno un’incredibile sonnolenza, no? Dopo non riesco più a combinare niente e stasera ho il teatro. Comunque me lo ricordo, non sono mica rincoglionito. Quanto gli devo dare a questo Zucchi? 110?”

“Con lode. Lucchi.”

“Ma sì, sì,” disse Mazzetti. “Dove cavolo sta scritto l’orario di inizio su questi biglietti.”

Colella fissò con freddo dolore quel 21.30 grande come una casa, stampato proprio al centro della pagina.

“Non c’è scritto, professore.”

“Ma perché non fanno dei biglietti come dio comanda?”

“Non me lo spiego, professore. Comunque ho saputo da fonte certa che lo spettacolo inizia alle 21.30.”

“Perfetto, allora! Apericena e quattro risate,” fece Mazzetti contento come un bimbo.

da Donne di tipo 1, Feltrinelli

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