- Giacomo ha compiuto diciott’anni, e pensa non gli importi più di niente. Nei bar si creano delle alleanze strane, che durano poi quello che durano ma ci son stagioni in cui sembrano incrollabili.
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E siccome le alleanze che sbocciano nei bar certe volte si nutrono di rutti e di mugugni, e di cose dette un po’ per dire, una sera, mentre si gioca a pinnacolo, salta fuori che la zia ha un canterano di noce, al piano di sopra, di secoli e secoli fa.
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La zia è pesante con lui, Giacomo s’è accorto di pensarlo e gli dispiace; è piena di attenzioni e premurosa, ma son premure che lo fanno sentire un disagiato che non sa ancora stare al mondo, mentre la zia loda il suo bel ragazzino.
Giacomo ha compiuto diciott’anni, e pensa non gli importi più di niente. Non gli importa di stare alla finestra pensando di buttarsi giù di sotto, di essere riuscito a prendere la patente, di bestemmiare in casa della zia, non gli importa neanche di far cabò da scuola, alzandosi che non fa ancora luce, e andare su a piedi con lo zaino, come dovesse prender la corriera, ma poi girottare finché non passa l’ora in cui il bar si svuota dei clienti taciturni per il sonno, quelli che bevono il cappuccio e poi vanno a lavorare, e viene l’ora in cui, nello stanzino, si trovano Mario e Danielone, a giocare a carte con qualche altro deficiente – e a Giacomo è permesso ormai di fare il quarto.
Nei bar si creano delle alleanze strane, che durano poi quello che durano ma ci son stagioni in cui sembrano incrollabili, ed è successo che a giocare con questi due balordi, che tutti ritengono due mezzi delinquenti, bolliti che non fanno più paura, Giacomo si trova molto meglio che a stare con i suoi coetanei, che lo trattano sempre con ferocia, che sgasano nei campi con l’Enduro, e le ragazze li schifano e li odiano, e piangono per loro ma continuano a guardare sempre quelli.
Non è che Danielone e Mario siano poi tanto diversi: bevono come lavelli, parlano di macchine e di figa, e se lui tirasse fuori un argomento, ghignerebbero senza ascoltare. Dir loro come si sente, tanto varrebbe dirlo al gatto. Ma per Giacomo c’è una differenza: le cose che i suoi compagni fanno per sentirsi dei vincenti, mettersi in mostra e non restare indietro, e di cui cresciuti rideranno come se a farle fossero stati degli altri e mica loro, Mario e Danielone le fanno proprio perché son rimasti indietro; e non gliene importa niente: di non avere vinto, di esser compatiti, di stare lì a strusciare la giornata con gente di trent’anni più giovane di loro.
Un vecchio canterano
E siccome le alleanze che sbocciano nei bar certe volte si nutrono di rutti e di mugugni, e di cose dette un po’ per dire, una sera, mentre si gioca a pinnacolo, salta fuori che la zia ha un canterano di noce, al piano di sopra, di secoli e secoli fa, Giacomo pensa del milleseicento, a cui è molto affezionata, per via di lunga storia familiare, chissà da quale linea di madri e nonne di pianura le è arrivato.
«Un canterano?», dice Danielone, e nel dire quella parola sembra che le sillabe gli rotolino per la lingua grassa come rimasugli di spezzatino.
«Un mobile», dice Mario.
«Ci tiene i gioielli?».
«Ma che gioielli. È antico. Vero Giacomino? Roba che ci fai anche 12, 13mila euro».
«Ma non dire cazzate».
«Anche 20, dipende. Vai a vedere su Ebay. Oh, vuoi dare quelle carte o vuoi che venga vecchio mentre mescoli?».
Senza gli elastici
La zia è pesante con lui, Giacomo s’è accorto di pensarlo e gli dispiace; è piena di attenzioni e premurosa, ma son premure che lo fanno sentire un disagiato che non sa ancora stare al mondo, e che nessuna guarderebbe mai, mentre la zia loda il suo bel ragazzino. E poi tutte le volte che gli fa un regalo, sembra che voglia segnare dei punti in una gara fra lei e sua sorella.
Adesso è in un alberghetto in riviera, la mamma e il papà la raggiungeranno questo fine settimana. Giacomo non ne ha nessuna voglia, l’ha già detto ai suoi, al mare quest’anno non ci va.
Succede quindi che il sabato sera, con le sue chiavi, apre la casa della zia, e poco dopo arrivano Mario e Danielone, con un Fiat Ducato; Mario fa gli scalini due alla volta, con un passetto silenzioso, butta il naso da faina dappertutto, in due minuti si è fatto la logistica, porte e finestre e misure, mentre Danielone, solo a far le scale, è lì che rantola e si vuole già sedere.
Il mobile è pesante, c’è da bestemmiare, giù per le scale tre botte le prende; quando finalmente arrivano al Ducato, si scopre che dentro al cassone non hanno gli elastici coi ganci.
«Bravo, e adesso come lo fermiamo?».
«Aspetta Mario che chiamo al lavoro: “Ho preso il furgone senza dirvelo, non è che avete anche degli elastici?”».
Giovane, ma brizzolato
Sicché vanno ai 30, per non sballottare il canterano, fino al garage del fratello di Mario, che non è mai chiuso a chiave, prendono i ganci, legano e vanno. Salgono al Passo, e giù verso Lucca, poi niente autostrada, che con quel carico a Mario non piace. Strade normali. Mario gliel’ha ridetto: «Giacomino, di noi ti puoi fidare», ma Giacomo ha detto: «Era inteso, si fa se vengo anch’io».
«Bravo ragazzo», dice Danielone, nell’idea di una rivalsa per riflesso, e gli scompiglia i capelli, un gesto che a Giacomo ha sempre dato un fastidio bestiale, figuriamoci fatto dalla zia, ma in questo caso è diverso, e se lo gode; si siede in mezzo a loro, sopra il sedile a tre posti, e si gode anche il viaggio; tutto sembra diverso a guardarlo dalla cabina rialzata, e attraverso quel vetro gigante. Chissà che bello dev’essere guidarlo. Nei tornanti stretti ti sembra di volare, le fronde dei castagni di toccarle, e poi più in basso, le macchie di ailanto appassite dal caldo infernale: di solito non smettono di crescere neanche se gli spari, appena i cantonieri passano a pulire le scarpate ributtano peggio di prima e si moltiplicano; quest’estate, è dura anche per loro.
Mario, dai tempi di Bologna, conosce un tipo che trattava certa roba; non lo sentiva da un pezzo, ha scoperto che adesso sta in Umbria: «Ma non vengo io», gli ha detto. «Ho uno che sa come e dove muoversi. Ti dò un Gps».
«Come lo riconosco?».
«È brizzolato».
«Quindi vecchio».
«Giovane, ma brizzolato».
«Adesso sì».
«È scontroso».
«Dammi il suo numero, no?», dice Mario.
«No», dice l’amico. «Gli do il tuo. Tu vai là comodo, ti sistemi e aspetti».
«Ma è uno affidabile?».
«Perbacco. Il “signore del lago”, lo chiamano. Tu intanto mandami le foto dell’oggetto».
Libertà
Così in tre hanno scavallato l’Appennino, e adesso vanno per uno stradone, fra colline placide e piane riarse; la radio parla di incendi, di regioni che vanno a fuoco, e le canzoni dell’estate sembrano venire da Caraibi ininterrotti dove tutti sono in festa e con cinque o sei parole ti capisci, la luna la playa la noche, e tutte dicono che nell’infinita fiesta, io e te siamo unici e andiamo, por toda la vida, e Giacomo ha l’idea che dappertutto, nella notte, non si possa voltare un cantone senza imbattersi in due innamorati, eccitati dopo aver lasciato il ballo, c’è una montagna di gente specialissima, e vanno tutti in giro a due a due. La musica si sente a malapena, per via del cigolio che fa la rete divisoria del cassone, e dei rimbombi lamierosi da ogni parte del Ducato, e Giacomo pensa che sì, è proprio bello esser soli nella notte in due, ma forse ancora meglio in tre, sullo stesso sedile, Mario che guida e che fuma, lui in mezzo, e Danielone che straborda alla sua destra, e nel russare gli si appiccica addosso.
Arrivano che il sole si sta alzando. Doveva ben esserci un lago, ma Giacomo non l’ha visto; colpa del navigatore; passano in una valletta – vigne sul fondo, ulivi da un lato, dall’altro un monte boscoso, smangiato da una cava. La strada monta sopra una crestina, e al di là di quella ecco la piana, e sopra di loro, il paese.
È tutto di pietra, d’ogni variazione del bianco e del rosa, tutto salite e discese, d’una bellezza a cui Giacomo non è ancora abituato, e lo stordisce. Forse è apparentata alla bellezza di quei posti in cui s’andava in gita, e ti veniva raccontato il Medioevo, e si comprava un arco in miniatura, o una balestra. Ma qui niente prof, né compagni in corriera. Questa qui gli sembra la vita.
Girano intorno alle mura, finché Mario non trova un parcheggio; lasciano il Ducato sotto il sole e salgono; il caldo già spinge, e le cicale gridano, Danielone gronda e resta indietro, e dai muri pendono bandiere bicolori, rossoblu, verdi e marroni, gialleazzurre, dev’esserci una festa da qui a poco, strumenti antichi e menestrelli, e a Giacomo sembra le bandiere li salutino, due cavalieri e il loro giovane scudiero.
Trovano una locanda sulle mura. Mario dice: «Intanto che siamo a corto, ti dispiace Giacomino anticipare per stanotte? Toh, il pranzo di domani; poi quando abbiamo concluso ci si rimette in pari». «Giacomo ha già pagato la benzina, ma va bene; non gliene importa dei risparmi; tanto lui non se lo compra più l’Enduro».
E quindi si accampano, e ronfano, e nella stanza che diventa un forno Mario e Danielone si grattano in mutande, si stonano di caldo e Sagrantino, e Giacomo gira il paese, da solo, con una libertà che non aveva mai sentito; va sulle mura, all’ombra dei tigli che soffrono il caldo, e vede ovunque sbucare, dalle pietre, delle cascatelle di piante sconosciute, che scendono come capelli, di un verde lucido e grasso; e dietro il paese, lontano, un monte a forma di dente, che gli ricorda un monte familiare. Entra nelle chiese, osserva le Madonne assunte in cielo; c’è una Madonna che tiene il paese sotto il suo mantello, lo protegge dalle frecce, è Dio a scagliarle dall’alto, e si piantano sulle spalle di quella Madonna gigante. Anche la gente soffre il caldo, non c’è quasi nessuno in giro sotto il sole; ma a sera, quando arriva un po’ di brezza, qualcuno esce, ed escono i gechi, che zampano su per i muri – nella sua vita Giacomo aveva visto forse un geco o due, qua ce ne sono a centinaia, e pensa che gli stiano simpatici come ben poche bestie al mondo.
Le cicale
Intanto nella stanza passa un giorno, poi due, viene il terzo, e il tipo non dà segno di arrivare.
«Ma è affidabile, l’amico del tuo bolognese?».
«Il “signore del lago”», lo chiamano.
E intanto il canterano della zia, un po’ scumaccato, dorme nel parcheggio, alla randa del sole. Giacomo ha il compito di andare a controllare, qualche volta, di fare un po’ da sentinella, casomai vedesse uno scontroso brizzolato.
E mentre è giù dal Ducato, il terzo giorno, gli telefona la mamma. Le cicale cantano fortissimo, e c’è un viavai di operai del comune, che portano cavi, assi e putrelle, casse da musica per qualche manifestazione: lui guarda gli operai lavorare, nella caldana, a malapena li sente, e a malapena sente sua madre, si sentono solo le cicale, e sua madre dal mare gli dice: «Ma dove sei?».
«Sotto l’ippocastano, in cortile», dice lui.
«Che casino fanno le cicale quest’estate, non ci avevo mica fatto caso prima di partire. Gi, ti saluta la zia».
Vedere il lago
Nel risalire dal parcheggio, Giacomo si ferma accanto a una di quelle piante strane, quelle cascatelle verdi che escono dai muri; sono sbocciati dei fiori che ieri non c’erano, somigliano a quelli della passiflora; li annusa; hanno un odore che gli sembra di intuire; ce l’ha sulla punta della lingua; annusa ancora.
«Sono capperi», gli dice una ragazza, e gli sorride.
Non si fa vivo il “signore del lago», ma sul cellulare di Mario arriva un’altra coordinata Gps.
Quindi vanno e imboccano una stradina bianca, sollevando la polvere che copre le foglie dei lecci e le sterpaglie. A un certo punto c’è uno slargo e Mario accosta, e Danielone dice: «In questa buca?».
«In questa buca. E siamo anche in anticipo, perciò vi dico cari, adesso Mario si fa un sonno».
Ma dura tre minuti perché Giacomo, dallo specchietto, vede una macchina arrivare, e dà a Mario un colpetto sulla spalla.
«È brizzolato?», chiede Danielone.
Il tipo scende dal suo pick-up coperto, e Mario gli apre il cassone, lo lascia montar su e scrutare; nessuno commenta mentre il tipo guarda, guarda e dice: «Mh».
Nello spiazzo c’è un corniolo, carico di frutti in un modo favoloso, e mentre il “signore del lago” fa le sue stime intorno al canterano della zia, Giacomo mangia i frutti, ma sono secchi e smunti, sanno ancora di acerbo eppure già di appassito; il corniolo sembra morire. Infine il tipo parla, e dice che non si fa fregare, che le foto non erano chiare, che questo mobile vale meno di un terzo di quel che loro chiedono; che i piedi sono rovinati, e la ferramenta non è originale, maniglie e pomelli son stati cambiati, che è tutto scheggiato e restaurarlo costerà, ma che siccome lui è buono, 5mila euro ce li mette.
Mario dice: «Amici come prima» e chiude il portello del Ducato. Tempo che siano rimontati, il pick-up del tipo è già sparito; Mario fa manovra bestemmiando, e tocca sotto dal nervoso, nella stradina bianca, e il canterano si scumacca ancora un po’ dentro al cassone.
Danielone dice: «Scontroso, era scontroso».
Così, nella stanza che è un forno, alla locanda, tocca pensare, e rimuginare, tentare delle telefonate, e questionare da ubriachi, e maledirsi in mutande, e Danielone a un certo punto dice: «Dai, richiamiamolo, prendiamo i 5mila».
«Ma neanche per sogno. Non vedi che ci voleva fregare? Questo torto alla zia non lo facciamo, vero Giacomino? Ci vuole anche rispetto».
Non è tanto che Giacomo si senta annoiato da loro. È che lo spettacolo è arrivato al punto in cui portarlo avanti tocca a lui. Giacomo pensa: io sono un giovane cavaliere, e ho due scudieri balordi. Mentre loro dormono, prende le chiavi e va al Ducato. Stringe gli elastici attorno al canterano della zia. Per lui sarà un’avventura, per loro sarà una bravata, da ghignarci tre minuti e poi scordarla, e quando tornerà loro in mente, chi lo sa, non si ricorderanno più chi era, il ragazzino, né dov’erano. No, dov’erano se lo ricorderanno.
Giacomo chiude il portello, monta al volante e mette in moto. Lungo il ritorno vuole poi vedere il lago.
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