Anticipiamo un estratto de Il terzo impero – La Russia come dovrebbe essere di Mikhail Yuryev (Fanucci editore), in libreria dal 19 aprile. È la prima traduzione al mondo di un volume che ha una storia singolare.
Fu pubblicato per la prima volta in Russia nel 2007 e presto ritirato dal commercio. L’autore, morto nel 2019 all’età di 60 anni per cause sconosciute, nel 2018 curò una seconda edizione, quella che ora viene stampata in Italia.
È un romanzo distopico. Un narratore latino-americano nel 2054 racconta come si è creato il nuovo ordine mondiale costituito da cinque Super-Stati: la Federazione Americana che include tutte le Americhe da Nord a Sud; la Confederazione indiana, comprensiva della Birmania; la Repubblica Celeste dominata dalla Cina e che ha inglobato i Paesi circostanti, Giappone compreso; il Califfato islamico che si estende su tutta l’Africa, il Medio Oriente, l’Asia Centrale; l’Impero Russo che si è annesso tutta l’Europa, l’Asia del Nord, la Turchia, Israele...
Impressiona la preveggenza dell’autore sulle mosse di Putin, l’invasione dell’Ucraina e delle regioni filorusse negli Stati ex sovietici. Non per caso il protagonista della prima parte del libro si chiama Vladimir II il Restauratore. Yuryev del resto fu molto vicino a Putin, al punto da poterne ben conoscere gli intenti. E se la sua opera non è stata distribuita molto probabilmente lo si deve al fatto che è stata considerata troppo rivelatrice e anticipatrice.
L’Unione russa del 2009 non era molto diversa dalla Federazione russa del 2006, prima delle riforme di Vladimir II, nella sua struttura politica ed economica; ma nell’atmosfera erano praticamente due Paesi diversi. Nel 2006, la stampa, compresa la televisione di Stato, era ancora come minimo antipotenti e al massimo antirussa, e in ogni caso catastrofica e disfattista. Nel 2009, sebbene vi fossero molti materiali pubblicati e trasmessi in disaccordo con specifiche decisioni governative, veniva fatto da una posizione patriottica, di vicinanza e di amicizia con lo Stato, come avviene ovunque nel mondo.
Nel 2006, tutti i partiti, tranne quello puramente burocratico di Russia unita, erano marginali e facevano a gara a chi avrebbe vinto, chi sarebbe apparso il più oppositivo per compiacere il cosiddetto elettorato oppositivo. E alle elezioni della Duma di Stato del 2008 arrivarono due partiti già del tutto normalizzati: il partito imperiale dell’Unione russa (ipprs) e il partito del Progresso russo (rppp), formatisi in seguito alla scissione pacifica di Russia unita, e il più di sinistra, il Giovane partito dei guardiani della Russia (ypgr), che rappresentava principalmente, ma non esclusivamente, gli elettori dei nuovi territori ucraini e bielorussi. Nessun partito di opposizione marginale si avvicinò al cinque percento, e l’atmosfera generale delle elezioni (e successivamente della Duma di Stato) fu solida e di consenso sui valori di base, come dovrebbe essere, ma come non era in Russia prima di allora.
La corruzione diminuì drasticamente e, ancora una volta in modo particolare, l’atmosfera cambiò: i nuovi funzionari non si vedevano più come lavoratori part time a libro paga, come lo erano non molto tempo prima, ma come funzionari di un grande Paese; immaginare due funzionari che dichiarano apertamente guadagni personali illegali nel 2009, rispetto al 2006 e soprattutto al 2000, è assolutamente inconcepibile. Ciò fu facilitato anche dall’uso diffuso di processi psicotecnologici (vedi sopra), e dall’uso diffuso di interrogatori psicotecnici (vedi sopra), e dal ritorno del sistema delle ‘buste’ del secondo impero, cioè dei pagamenti significativi e non ufficiali ai funzionari; ma la ragione principale, senza dubbio, fu il cambiamento dello stato d’animo della società.
(È interessante notare che quando a Vladimir II durante un’intervista televisiva fu chiesto delle buste, egli rispose senza mezzi termini: «Sì, succede, cari cittadini, e non c’è al momento bisogno né di rendere questi pagamenti ufficiali, né di chiedere a me o ad altri i dettagli, per non suscitare allarme». I russi la presero come una cosa normale e, anzi, pensarono che il sovrano li trattasse onestamente, come avrebbe dovuto).
Non so se a seguito di ciò l’efficacia dei funzionari aumentò – sembra di sì – ma sicuramente ci fu più senso nelle loro azioni; questo valse sia per il blocco socioeconomico che per quello politico-militare. Gli uomini d’affari, medi e grandi, che poco prima si comportavano da maestri di vita arroganti e sprezzanti (ma in realtà in costante attesa del crollo, della prigione o delle pallottole), ora si sentivano solidi pilastri della società, rispettati e apprezzati dal loro Paese, e non avevano nulla da temere.
E lo stato d’animo della gente comune cambiò radicalmente: c’era la guerra, anche se ancora fredda, eppure l’ottimismo e la fiducia nel futuro sembravano cresciuti cento volte! Questo mi è stato raccontato dalle persone anziane in Russia con cui ho parlato: «Al posto della sensazione di impotenza, c’era una sensazione di equità e ragionevolezza, di legittimità di tutto ciò che stava accadendo, comprese le difficoltà, e la certezza che insieme ce l’avremmo fatta e tutto sarebbe andato bene».
Tra l’altro, in quel periodo molti più russi tornarono alla Chiesa di Cristo che non nella desolazione degli anni Novanta, affermando l’unicità della visione del mondo russa, una particolare sensibilità alla rettitudine, chiaramente formulata nel vecchio detto: «Dio non ama la fede quanto la verità».
Il popolo russo
Perché tutto è cambiato così tanto? Credo che il popolo russo si distingua per il fatto che è estremamente importante per lui avere un obiettivo nazionale ben chiaro e formulato che dia un senso, se non alla vita della singola persona, almeno a quella della comunità.
Sono disposto a ipotizzare che questa sia l’origine del collettivismo russo rispetto al collettivismo orientale: non c’è senso nella vita individuale (tranne per coloro che sono effettivamente in grado di vivere per la salvezza e la vita eterna). Significa che bisogna amalgamare la vita individuale a quella collettiva, perché un senso serve, senza non c’è modo di vivere.
Ora è chiaro cosa avevano perso la Russia e i russi negli anni Novanta, dopo il crollo del secondo impero, e perché avevano desiderato tanto, cadendo nel degrado più totale, non la ricchezza, l’indipendenza o addirittura la grandezza; avevano perso il senso dell’esistenza. Il denaro e il successo personale, con cui avevano cercato di sostituirlo, è in ogni caso solo un fattore individuale, ma qual è il senso generale?
Vladimir II nemmeno formulò questo senso, non verbalizzò un’immagine del futuro a cui si dovrebbe aspirare, agì, a dir poco, in modo pronto, ma tutti sentivano che questo senso esisteva; quale fosse non era importante. Per le civiltà di tipo russo, questo sentimento nasce di solito come risultato di un confronto militare con un nemico, meglio se contro un nemico molto più forte, meglio ancora se contro il mondo intero; questo è ciò che successe.
Così, l’Occidente fece con le proprie mani ciò che i russi stessi non potevano fare: diede loro il senso dell’esistenza e con esso il potere. Naturalmente, durante questo periodo, l’ideologia e la politica estera subirono cambiamenti piuttosto significativi.
Prima dell’inizio del grande Conflitto quaresimale, la Russia annunciò il suo ritiro da due organizzazioni europee, legate tra loro: il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (se non si fosse ritirata da sola, sarebbe stata espulsa). A giudicare dalla stampa dell’epoca, questo colse di sorpresa l’occidente, anche se è difficile capire come avrebbe potuto essere altrimenti. Quando un’altra organizzazione europea, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, istituita negli anni Settanta, in gran parte dalla Russia stessa (il secondo impero), rispose con una risoluzione di lotta politica de facto contro la Russia, lei si ritirò dall’organizzazione.
«Non vi piacciamo?» chiese retoricamente Vladimir II in un’intervista alla televisione francese. «Allora fateci la guerra e conquistateci. Perché voi, europei, ci avete già provato con Napoleone e con Hitler; ebbene, come si dice qui, Dio ama la trinità. Oppure rifiutatevi di comprare la nostra energia, il petrolio e il gas, in modo da farci morire di fame». A quei tempi si scherzava sul fatto che un ritiro del petrolio russo avrebbe causato un’impennata dei prezzi che avrebbe distrutto l’economia europea; non c’era modo di sostituire il gas russo. «E no, dovreste sapere che somigliate a un cane che abbaia in modo assordante perché ha paura di mordere; da noi si dice così: “Chi fa il verso all’orso vuole farsi credere forte”».
Naturalmente le frasi di rito secondo cui la Russia fa parte della civiltà europea vennero ripetute, ma fu aggiunta una nuova posizione. Fu chiaramente espressa nel messaggio di Vladimir II all’Assemblea federale del 2008: «La Russia è una civiltà separata, antica e autosufficiente, che non aspira all’”Europa politica”, anche se geograficamente e storicamente fa parte dell’Europa e desidera avere con essa rapporti di buon vicinato. Non solo l’integrazione in Europa non è l’obiettivo principale dell’attuale politica russa, ma, al contrario, uno degli obiettivi principali è quello di prevenire tali tentativi».
Poiché Vladimir sapeva che la mentalità della nazione russa è fortemente orientata verso i simboli e le azioni simboliche, intraprese una serie di azioni di questo tipo.
Calendario e targhe
Per fare un esempio: nel 1918 i comunisti introdussero il calendario gregoriano in Russia, come in Occidente, mentre prima di allora vigeva il calendario giuliano; nella Chiesa, invece, rimase il calendario giuliano, cosicché lo Stato e la Chiesa vivevano la cronologia in modo diverso.
Questa differenza probabilmente infastidiva un piccolo numero di persone che frequentavano la Chiesa, ma la maggioranza era indifferente; ci furono occasionali appelli marginali da parte dei cosiddetti rinnovatori a rendere gregoriano il calendario ecclesiastico. Vladimir liquidò questa distinzione con un decreto, ma rese il calendario giuliano nazionale, così che oggi le date in Russia differiscono dalle nostre di tredici giorni (come fino al 1917). Un altro esempio: fu cambiata la forma delle targhe automobilistiche, che a quel tempo erano in caratteri latini e seguivano il modello europeo.
«Abbiamo vinto una sanguinosa guerra contro i tedeschi» disse Vladimir II «per poter poi essere chiamati “rus”’ con il nostro stesso consenso?» (La designazione del paese sulle targhe era rus). Ci furono altri passi simbolici, di per sé piccoli, ma che indicavano chiaramente che l’amore con l’Occidente, in particolare con l’Europa, era finito; oltretutto si trattava di un amore a senso unico, perché da parte dell’Occidente, e in particolare dell’Europa, non era mai esistito.
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