Purtroppo, anche dopo la revisione, le cifre del Pnrr sono molto lontane da quello che dovrebbe essere il vero obiettivo nel corso dei prossimi dieci anni: agganciare gli investimenti in ricerca della Germania. Inoltre, manca ancora una chiara strategia di destinazione dei fondi
- A una prima analisi è evidente un certo miglioramento del testo soprattutto dal punto di vista programmatico: infatti ora sono citati esplicitamente sia il Piano Amaldi che il modello tedesco per la ricerca applicata e industriale del Fraunhofer Insitute.
- L’impostazione confusa del documento è tradita sin dall’inizio dalla titolazione ambigua e imprecisa del capitolo che recita “dalla ricerca all'impresa”.
- Purtroppo, il Pnrr stanzia poco solo più dell’1 per cento del totale dei 209 miliardi di euro per il “triangolo della conoscenza”, ossia istruzione, ricerca e innovazione.
Il governo ha finalmente diffuso la nuova versione del Piano nazionale di rilancio e resilienza (Pnrr). A una prima analisi è evidente un certo miglioramento del testo soprattutto dal punto di vista programmatico: infatti ora sono citati esplicitamente sia il Piano Amaldi che il modello tedesco per la ricerca applicata e industriale del Fraunhofer Institut.
Quest’ultimo può essere considerato l’implementazione, già contenuta in nuce nel Piano Amaldi, del trasferimento tecnologico dei risultati della ricerca scientifica verso il tessuto industriale del paese. Una delle possibili realizzazioni di questo modello era stata proposta dal sottoscritto e da Marco Bentivogli su Repubblica il 14 ottobre dello scorso anno e ribattezzata “QuantumItalia” (che rappresenta la fusione tra Piano Amaldi e rete InnovAction).
È tuttavia necessario mappare le proposte del governo su quelle che erano le richieste del Piano Amaldi nelle sue due versioni (quella hard, che chiedeva circa 20 miliardi in 6 anni per agganciare la Germania e il trasferimento tecnologico, e quella soft, contenuta nella lettera dei 14 luminari al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che chiedeva almeno 15 miliardi in 5 anni per agganciare la Francia come “promesso” dal ministro Manfredi). Purtroppo, le cifre del Pnrr sono molto lontane da quello che dovrebbe essere il vero obiettivo nel corso dei prossimi dieci anni: agganciare gli investimenti in ricerca della Germania. Inoltre, manca ancora una chiara strategia di destinazione dei fondi e di riforma complessiva del sistema istruzione e ricerca visto come motore di sviluppo economico.
La riforma dei corsi
Iniziamo col notare che la riforma dei corsi di laurea non va nella direzione auspicata: infatti le classi di laurea professionalizzanti come quelle Stem sono, il più delle volte, già all’altezza delle aspettative e più che introdurre delle soft skills nelle discipline Stem, andrebbero introdotti elementi di hard skills nelle discipline umanistiche. Queste nozioni consentirebbero ai laureati in discipline umanistiche di non essere catapultati in un mercato del lavoro in cui le loro competenze, tutt’altro che inutili, restino disconnesse dal contesto lavorativo per una mancanza di una base di “linguaggio tecnico” adeguato.
La riforma dei dottorati prevede invece il coinvolgimento di imprese e centri di ricerca nei percorsi di dottorato; il che di per sé non è sbagliato (la seconda cosa avviene già) ma dovrebbe avvenire in maniera naturale e non depotenziando o regionalizzando i dottorati per esigenze transitorie del sistema delle imprese.
Gli investimenti
L’impostazione confusa del documento è tradita sin dall’inizio dalla titolazione ambigua e imprecisa del capitolo che recita “dalla ricerca all’impresa”.
A ciò va aggiunto il fatto che linee operative e di implementazione del documento sono incerte: iniziando l’analisi dal settore pubblico si vede come numero e retribuzione dei ricercatori andrebbero aumentati con il bilancio ordinario, razionalizzando la spesa corrente, essendo una voce strutturale. I 600 milioni allocati per questa voce sono quindi di difficile decodifica. Forse andrebbero indirizzati alla operazione una tantum, ma necessaria, della riforma del sistema della ricerca pubblica per ridurre la burocrazia in modo che la quota di personale ricercatore negli enti di ricerca aumenti, relativamente a quella di amministrativi.
Avere più risorse, in proporzione, per i ricercatori consentirebbe di assumere più dottori di ricerca nel pubblico contrastando, in modo naturale, anche da questo lato, la fuga dei cervelli. Riguardo la ricerca applicata pubblica e le sue possibili relazioni col settore industriale, università e enti di ricerca, ove possibile e ove ne esista la vocazione, dovrebbero spingere il trasferimento tecnologico dotandosi di specifiche competenze e dipartimenti.
Nel campo dei progetti di ricerca, per quello che concerne gli investimenti in infrastrutture scientifiche e tecnologiche, non è chiaro che tipo di investimento viene fatto in nuove infrastrutture né che strategia di potenziamento di quelle già esistenti si vuole intraprendere per portarle a un livello competitivo adeguato agli standard europei e mondiali.
L’investimento in grandi installazioni tecnico-scientifiche infatti non crea un indotto economico quantitativamente inferiore alla realizzazione di altre infrastrutture di ingegneria civile come ponti e autostrade. Inoltre, è un’ottima strategia per rivitalizzare l’economia di aree depresse generando traffico scientifico internazionale, edilizia abitativa, commerci, il tutto con un basso impatto ambientale. Quindi, 1,58 miliardi per “grandi” infrastrutture scientifiche è una cifra non congrua alle ambizioni che un paese come l’Italia dovrebbe nutrire ma sembra essere piuttosto uno stanziamento di carattere manutentivo.
La creazione di 7 centri attivi in domini tecnologici di frontiera nel Pnrr sembra creare ridondanze rispetto ad altre strutture pubbliche già esistenti. Per esempio, non è chiaro come il Centro nazionale di alta tecnologia, ambiente ed energia differisca dall’Enea. Il centro per il quantum computing si andrebbe in parte a sovrapporre all’Istituto nazionale di fisica nucleare. La creazione di centri di eccellenza in determinate aree strategiche non è in sé sbagliata, anzi, ma i nuovi soggetti vanno armonizzati con le realtà già esistenti e dovrebbero coprire innanzitutto settori che sono rimasti indietro, non creare duplicazioni. Nel settore privato, le pmi vanno spinte a consorziarsi al fine di ricevere incentivi fiscali per attività ad alta intensità di ricerca e sviluppo. Sgravi fiscali per l’assunzione di dottori di ricerca andrebbero introdotti per un tempo limitato onde consentire al sistema di adattarsi al nuovo paradigma.
Venendo infine al punto saliente del trasferimento tecnologico sul modello del Fraunhofer Institut tedesco, è opportuno innanzitutto capire cosa stiamo cercando di realizzare. Il Fraunhofer Institut (Fi) tedesco è stato fondato nel 1949, con sede a Monaco di Baviera ed è una organizzazione nazionale con base regionale per la ricerca applicata.
Il suo assetto statutario e il quadro normativo originario sono complessi e vanno adattati opportunamente alla realtà italiana, soprattutto per quello che riguarda il nostro tessuto industriale. Il Fi tedesco è composto da 67 istituti, impiega 24mila persone e partecipa a vari network e organizzazioni internazionali, come l’European association of research and technology organisations. Il bilancio annuale del Fi è di circa 2,1 miliardi di euro di cui circa 300 milioni di euro sono messi a disposizione dal governo federale tedesco e dai Land, mentre ben 1,8 miliardi di euro sono reperiti direttamente sul mercato come frutto di contratti di ricerca con l’industria ma anche con altri enti statali.
Il modello
Il documento del governo ricalca questa impostazione prevedendo un 30 per cento di fondi statali per la versione italiana del Fi. La mission di un centro Fi è quella di determinare le esigenze di ricerca e sviluppo delle imprese operanti nella sua zona e avviare collaborazioni (anche di/con altri centri Fi) con quelle imprese. I centri Fi si incaricano di attuare le partnership e identificano per ogni cliente le migliori opportunità di collaborazione. In Germania esiste anche un High-Tech forum, istituito nel 2015, per fornire pareri qualificati al governo federale sulla realizzazione e sullo sviluppo della High-Tech strategy (Hts) tedesca.
Il Pnrr propone quindi la creazione di ben 20 centri Fi probabilmente immaginandone uno per regione. Tuttavia, la creazione di questi centri non deve pedissequamente seguire uno schema geografico, ma andrebbe prima di tutto calata nella realtà italiana. Inoltre, non necessariamente i centri andrebbero creati dal nulla ma innestati su realtà già esistenti.
La promozione e commercializzazione dei risultati scientifici è uno degli obiettivi del Fi e prevede il coinvolgimento diretto delle imprese nel processo decisionale. Un centro Fi agisce come hub, fornendo all’impresa o al consorzio di imprese un servizio di consulenza per determinare nuovi obiettivi commerciali.
È poi fondamentale l’interconnessione del Fi con gli enti di ricerca già esistenti e università. Una volta trovata o sviluppata la tecnologia a livello prototipale, il Fi si occupa delle procedure di ingegnerizzazione e delle procedure di produzione in serie per la commercializzazione. L’impresa quindi acquista dal Fi un “pacchetto” e in seguito sostiene i costi di ammodernamento o creazione degli impianti, assunzione di personale qualificato per la messa in produzione di un prodotto con ottime possibilità di successo sul mercato globale.
Tuttavia, queste fasi rimangono vaghe nel documento del governo e soprattutto rimangono vaghi i settori dell’esecuzione strategici in cui dovrebbe operare il nostro sistema Fraunhofer. Facendo riferimento al modello tedesco, si trovano facilmente elementi che vanno ben oltre gli aspetti citati nel Pnrr con le solite parole d’ordine del 5G e della digitalizzazione.
Il Pnrr attuale è, almeno nelle intenzioni, un passo in avanti rispetto alla prima versione ma ancora largamente insufficiente in termini di fondi stanziati e visione complessiva del settore ricerca sia pubblico che privato. Purtroppo, il Pnrr stanzia solo poco più dell’1 per cento del totale dei 209 miliardi di euro per il “triangolo della conoscenza”, ossia istruzione, ricerca e innovazione.
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