-
L’arrivo di una malattia, la Xylella, si scontra con un muro di diffidenza e sospetti che si diffondono sui social.
-
Il libro di Daniele Rielli è come un romanzo sulle nostre debolezze, a metà strada fra un thriller e un reportage.
-
Unisce il brio di certe indagini del New Yorker alla tendenza riflessiva intima e problematizzante dei reportage di Emmanuel Carrère.
Viene scoperta una nuova malattia. La sua diffusione rischia di avere effetti devastanti; non c’è cura. L’unico modo di contenerla comporta conseguenze drastiche e una violenta trasformazione della società.
Errori di comunicazione e convenienza politica favoriscono il complottismo negazionista, alimentato da giornalisti pigri o senza scrupoli e fomentato dai social network. Ben presto la situazione è diventata persino più grave, e neppure le pesantissime misure iniziali potranno alcunché per evitare una catastrofe. Ricorda qualcosa? Esatto, è la storia di Xylella.
Il cortocircuito
È tristemente nota, o dovrebbe esserlo. Quasi un decennio prima della pandemia da Covid-19, l’Italia ha avuto modo di sperimentare un primo, disastroso cortocircuito fra populismo ed evidenza scientifica, quando nel Salento sono stati rilevati i primi campioni di un batterio incurabile in grado di seccare le più diffuse varietà di ulivo.
L’unico modo di arginare l’infezione sarebbe stato distruggere rapidamente le piante infette e tutte quelle, anche sane, in un ampio raggio attorno: una soluzione che avrebbe impattato molto violentemente centinaia di piccoli proprietari e compromesso un tratto di paesaggio secolare.
Il contenimento è stato impossibile. Ogni tentativo si è impaludato nella burocrazia paesaggistica; la resistenza degli olivicoltori colpiti non è stata vinta con spiegazioni e rimborsi, ma cavalcata irresponsabilmente da politici senza scrupoli, ambientalisti in buona fede ma poco interessati alla scienza, giornalisti pigri o opportunisti.
Il tutto è esploso con l’innesco dei social media, come esplode una granata a frammentazione: spargendo devastazione ovunque. Mentre il fuoco invisibile risaliva la Puglia, bruciando alberi centenari o millenari a migliaia, gli espianti possibili erano poche decine.
Intanto che un gruppo di ricercatori all’avanguardia mondiale sequenziava il batterio per dimostrarne la patogenicità, la procura della Repubblica ne sequestrava i computer accusandoli di diffusione di una malattia, inquinamento ambientale, distruzione di bellezze naturali. E l’infezione andava avanti. Archiviate le indagini, esaurite le polemiche, finite le sperimentazioni, gli alberi morti sono oltre ventuno milioni. Enormi tratti di Puglia sembrano un bosco post-apocalittico.
Il fuoco invisibile
Questa storia – o meglio, queste storie sono al cuore di Il fuoco invisibile, di Daniele Rielli, un vero e proprio documentario letterario da poco uscito per Rizzoli.
Romanziere e giornalista originario del Salento, dove la famiglia del padre possedeva un oliveto colpito dall’infezione, Rielli aveva già raccontato l’epidemia di Xylella in un lungo reportage uscito su Internazionale nel 2015 e circolato moltissimo grazie alla combinazione di uno sguardo lucido e scientificamente preciso, un talento narrativo da romanziere ottocentesco, e un investimento personale nella vicenda che gli impediva generalizzazioni facili o snobismi superficiali.
Questi tratti si ritrovano – rafforzati dal maggior respiro e forse dalla maturazione dell’autore – ne Il fuoco invisibile, un racconto a varie prospettive che si legge come un thriller e unisce il brio di certe indagini del New Yorker alla tendenza riflessiva intima e problematizzante dei reportage di Emmanuel Carrère.
Personaggi
Rielli segue la vicenda di Xylella lungo un arco latamente cronologico, attraverso una serie di ritratti di alcune figure centrali della vicenda, incontrate più volte nel corso degli anni.
C’è il primo olivicoltore che nota quegli strani disseccamenti (e verrà additato da untore); lo scienziato che con un’intuizione brillante capisce subito la gravità del problema (e verrà indagato); la ricercatrice che lo approfondirà e la divulgatrice che ne renderà noti i risultati (indagate anche loro); l’imprenditore che dedica ogni propria energia alla sensibilizzazione del territorio (e fallirà); quello che sogna di innovare l’antica olivicultura pugliese cercando nuove varietà resistenti al batterio (non le troverà).
Ci sono, anche, molte figure che a vario titolo – per legittima diffidenza verso l’autorità, per eccesso di fiducia in una tradizione secolare o nel vangelo del biodinamico, per presenzialismo esibizionista, per populismo suicida, per un’ignoranza che non è una colpa, per una cecità che lo è – si opporranno all’unica strategia di contenimento, negando l’urgenza della crisi o addirittura che una crisi ci sia (e perderanno ogni ulivo); ci sono i pubblici ministeri che indagano sul gruppo di ricerca, ostruendone il lavoro nel momento più cruciale, sulla base di citazioni inventate, teorie superate, anagrammi complottisti (archivieranno). C’è Al Bano.
La speranza
C’è, anche, il padre di Rielli stesso, di cui il libro offre un racconto delicato e toccante, di un’intimità sommessa che fa tracimare l’io che narra ben al di là della genericità funzionale dell’io reportagistico.
Medico arrivato a Bolzano dal Salento grazie a una borsa di studio, e lì rimasto per mantenere una famiglia resistendo alle coltellate della nostalgia, il padre dell’autore apre e chiude Il fuoco invisibile.
Nel primo capitolo, Rielli racconta dell’amore che lega il genitore ai suoi ulivi, che torna da solo a curare ogni anno, ripensando a un’infanzia idealizzata e lontana.
Nel corso della vicenda, nonostante la formazione scientifica e un rigore intellettuale palese sin dall’inizio – nonostante il figlio si stia specializzando proprio in questo argomento – l’uomo resisterà in ogni modo alla teoria dell’infezione incurabile, evitando l’argomento, svicolando, insistendo sulla validità di rimedi tradizionali o della pura e semplice buona cura delle piante.
Sono pagine commoventi, vere, venate di tristezza e ironia. Alla fine apparirà chiaro che la sua resistenza iniziale non derivava dall’ignoranza o dal complottismo, ma da qualcosa di molto più umano, e per questo inevitabile, e per questo straziante: derivava dalla speranza.
Una buona ragione
Rielli non cade nella trappola di una neutralità giornalistica che è spesso ipocrita e sempre astratta. Dichiara sin da subito la posta in gioco familiare e soprattutto la sua adesione alla prospettiva dei ricercatori, che nell’ostilità generale caldeggiavano un intervento drastico il prima possibile.
Oltre a offrirne ritratti profondi e affascinanti, nelle pagine che vi dedica Rielli si adopera in un lavoro di divulgazione scientifica esemplare: con limpidezza didattica e precisione terminologica (la stessa con cui altrove racconterà l’industria dell’olio a vari livelli) rende immediatamente chiari i fondamenti della loro teoria e la bontà della campagna che hanno portato avanti, spesso a costo di enormi sacrifici personali.
Ma questa onestà non gli preclude una forma di adesione alla prospettiva opposta, che non nasce dall’empatia né dal gusto del paradosso, ma da un misto di curiosità intellettuale e, per dir così, ecumenismo umanista.
«Se pensano questa cosa», sembra dirsi Rielli, e chi legge con lui, «devono avere una buona ragione – o almeno, una ragione che a loro lo sembra».
Una storia umana
Nelle sue pagine migliori, nei casi non irredimibili, la trova. Questo fa sì che Il fuoco invisibile non racconti un’indagine con smascheramenti e colpevoli, ma, nel senso letterale del termine, una tragedia. I personaggi tanto disparati che lo popolano hanno una cosa in comune: in qualche modo, perdono tutti.
Questo è ciò che conferisce a Il fuoco invisibile un valore letterario che va al di là di quello, pure altissimo, che ha come documento storico-politico. L’indagine di Rielli scava sotto l’ora della cronaca e il qui dell’Italia: un sorprendente capitolo centrale ricostruisce la storia della monocultura di olivi in Puglia, non come tradizione arcaica ma come industria nata nel Settecento dal fabbisogno europeo di olio lampante, più economico di quello di balena.
Come Manzoni nella Storia della colonna infame, ciò che fa Rielli non è additare responsabilità individuali, ma mostrare il disastroso cortocircuito delle costanti umane – speranza, miopia, malafede, orgoglio, caparbietà – scatenatosi il giorno in cui una malattia decide di mandare i suoi insetti-vettore a morire in un uliveto felice.
© Riproduzione riservata