Viziata, capricciosa, indolente, arrivista, egoista. Oppure: paladina del Desiderio, la pulsione fondamentale che muove ogni essere umano, che in lei è totalizzante al punto da guidare ogni sua azione, dalle relazioni amorose al suicidio finale. Di tutte le eroine della letteratura poche sono in grado di dividere il parere dei lettori quanto Emma Bovary.

Antonella Lattanzi, una delle più brave scrittrici italiane contemporanee, si è innamorata di Emma. Più di una volta, a ogni rilettura del capolavoro di Flaubert, in periodi diversi, e sempre cruciali, della sua vita. Madame Bovary è il libro del suo cuore, ed Emma per lei quasi un’ossessione. Lo stesso desiderio inestinguibile che muove Emma, Lattanzi lo sente come proprio, tanto da farle pensare, se non “Madame Bovary sono io”, almeno “Emma è mia sorella”. Seguendo il filo di questa affinità elettiva, Lattanzi ci conduce in un viaggio nella psiche dell’eroina flaubertiana, un viaggio in cui la sua vita e quella immaginaria del personaggio si intrecciano, mostrandoci come l’opera e l’ossessiva cura di Flaubert per la scrittura illuminino un percorso che riguarda altri libri, film, canzoni, da Anna Karenina a Sotto il vulcano, da Beppe Fenoglio a Deep Water.

E così non mi ricordo la prima volta in cui ho letto Madame Bovary (anzi, adesso me ne ricordo un attimo, un’epifania). È singolare, considerando quanto è diventata importante per me. Considerando, per esempio, quanto ricordo bene la prima volta che ho letto un altro libro che amo, Una questione privata di Beppe Fenoglio. Saranno stati gli stessi anni.

Avrò venticinque anni. Sono tornata per qualche giorno dai miei, a Bari (anche io, come i due lettori di Madame Bovary molto più illustri di me, ho di alcuni dei miei libri più cari ricordi familiari; anche io, come loro, i libri che più amo li leggo una prima volta, ma li rileggerò). Sono in salotto. C’è un sole pazzesco. Davanti alla casa dei miei, a Bari, dal lato del salotto, non c’è niente. Penso sia domenica, perché sento le voci di mio padre e mia madre in cucina, e sento bollire il sugo nella pentola, forse mia sorella e la sua famiglia verranno a mangiare da noi, c’è gran fermento.

C’è sempre un cane nella mia famiglia, e a quel tempo dovrebbe essere Ouzo, un pastore tedesco completamente pazzo che ho amato alla follia. Ouzo, se non sbaglio, è accucciato ai miei piedi. Io ho cominciato a leggere Una questione privata, stesa sul divano del salotto, come facevo spesso, al tempo. È un incredibile libro brevissimo – la parola che mi piace di più per i libri che amo è “incredibile”, inteso proprio in senso letterale: non si può credere che qualcuno abbia potuto scrivere un libro così. Sono poco più di centoventi pagine, si legge in un paio d’ore.

Io lo leggo e sottolineo col pastello giallo (è durata poco, questa mania di sottolineare con i colori, infatti Madame Bovary è tutta sottolineata a matita). Leggo e a mano a mano che leggo non sto più nella pelle. Tanto che a un certo punto non riesco più a tenere le gambe ferme, mi dà fastidio, si devono muovere. Mi metto seduta al tavolo. Il tavolo è di vetro, verde bottiglia, originale degli anni Settanta, di quando i miei genitori si sono sposati. Ci ho giocato a un milione di giochi da tavolo, quando ero bambina, quando vivevo qui. Il vetro di quel tavolo una volta si è rotto, perché mia madre o mio padre ci hanno poggiato sopra qualcosa di caldo. Ouzo si è spaventato moltissimo, ma non si è fatto niente. I miei genitori hanno ricomprato un vetro uguale a quello originale. Le sedie sono bordeaux. Nella stanza c’è un ficus gigantesco, che sembra un signore. Una specie di Polifemo. Dall’altra stanza, adesso, sento anche il tg. Mia madre che dice: «Natalino», nervosa, perché probabilmente lei e mio padre sono in ritardo, mia sorella sta per arrivare. Io sto leggendo e, come di consueto, sono pigra – o stronza – e non aiuto. Davanti a me, il divano dov’ero seduta fino a un secondo fa.

Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche in diagonale, alcuni si erano precipitati a sinistra per coglierlo d’infilata, e gli sparavano anche d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. «Nella testa, nella testaaaa!» Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò due mani al collo per strozzarsi. Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.

Leggo e non riesco più a stare nemmeno seduta. Le gambe si vogliono muovere. Voglio alzarmi. Voglio correre con Milton. Vedo un bosco in lontananza. Se dovete spararmi, non sparatemi alle gambe, sparatemi alla testa. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!». Non finisco di correre.

Leggo e corro, verso il bosco, zigzagando, «come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piedi saettava fango dai fianchi». Corro, «con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo». Sono «perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace», ma ancora corro, «facilmente, irresistibilmente». Poi, punto dritto nel bosco. Non appena entro sotto gli alberi, questi paiono…

E poi ho finito di leggere, le ultime undici parole, che certo non scriverò qui, perché sono le ultime parole del libro. Ma a me succede quello che succede a Milton.

Il libro finisce. Sento un’esplosione nel cervello. Poi alzo la testa e sono nel mio soggiorno, ma è sfocato, non vedo più niente.

Vent’anni dopo sono qui, a Roma, nel mio salotto, ancora con quello stesso libro sottolineato in giallo accanto a me, pieno di appunti, di orecchie, di foglietti a indicare dei passi salienti. Il romanzo di un partigiano che, anche lui, si perde nel Desiderio assoluto, che lo distruggerà. Come Emma. Oggi con me c’è una mia cara amica, stiamo lavorando insieme, ha fatto un caffè, ci concediamo una breve pausa, me lo porta, guarda il libro aperto, mi dice: «Cosa stai leggendo?». «Una questione privata» rispondo. «Di nuovo?» fa lei. Io alzo le spalle. «E cosa stai scrivendo?» «Una specie di saggio». «Su cosa?» «Madame Bovary». «Di nuovo?» «Come di nuovo, è la prima volta che scrivo di Madame Bovary». «Però è sempre lei. Sempre lei. Di nuovo».

Sempre lei. Che trovo in ogni libro che amo. In ogni film che amo.

Lei, che trovo nei contesti più disparati. Anche negli horror. Anche nei fantasy. Lei che trovo dentro il Milton di Beppe Fenoglio, nel desiderio assoluto che lo guida. Non desidera, forse, qualcosa di più che Fulvia, Milton? Qualcosa di più della vittoria? Non desidera, forse, nel modo più assoluto in cui si può desiderare, il Desiderio in persona?

E sapete chi è il Desiderio in persona?

Emma Bovary, nata Rouault, unica figlia di papà Rouault, che ha perso il suo unico figlio maschio appena nato, e poi ha perso sua moglie. Emma, che è stata in collegio dalle suore, ma per il resto del tempo ha sempre vissuto nella fattoria con suo padre, e che sposa Charles e va a vivere con lui a Tostes, pensando che adesso, finalmente, cominci la vita.

E invece la vita non comincia mai.

Non siamo tutti così?

Non siamo tutti convinti che il meglio debba ancora venire?

O meglio, non speriamo tutti che la vita debba ancora cominciare?

Cosa succede quando ci accorgiamo che la vita non comincerà mai, o che abbiamo perso il momento in cui abbiamo vissuto davvero?

Io amo i libri anche per questo. Perché ti rivelano sempre qualcosa di te che non sapevi, o che non avevi le parole per esprimere. Perché leggi e dici: «Ecco chi sono io, e non lo sapevo!». E perché, per parlare anche solo di uno di loro, devi parlare di tutto.

Tutta la storia di Madame Bovary nasce da un desiderio. Desiderio che, come ho scritto, è il vero e unico motore di questo romanzo. Madame Bovary è un romanzo sul desiderio, che si moltiplica e non finisce mai. Emma è un moltiplicatore di desideri, non è né una donna senza cervello che forgia le sue passioni e i suoi sogni su dei romanzetti, né un’adultera che passa da un uomo a un altro per dare un po’ di pepe alla sua vita, né una stupida che crede a ogni promessa che le viene fatta.

Madame Bovary è una specie di cavallo in corsa – i cavalli, in tutto il romanzo, preannunciano momenti clou di questa storia. Un cavallo che vagava in un prato, e poi è stato colpito da uno sperone, e ha cominciato a correre, correre contro tutto e tutti, e dal momento in cui ha iniziato a correre non è stato più possibile fermarlo.

Ancora una volta, Henry James: “Flaubert nacque romanziere” scrive, “crebbe, visse e morì romanziere”. E tutto questo lo visse come una condanna.

Ci sono tante cose strane in lui, ma la più strana è questa; che, se noi dovessimo giudicare dalle difficoltà che egli trovava nel suo lavoro, difficoltà registrate nelle lettere e altrove, non potremmo aspettarci che risultati mediocri. Ci disporremmo anzi a trovare un’assenza pressoché totale dei segni del talento. Dovremmo rammaricarci del fatto che quel disgraziato non si sia dedicato a qualcosa che gli potesse risultare facile, almeno relativamente. E sentiremmo la mancanza di quell’aura di consacrazione che accompagna, di solito, un’opera d’arte concepita con gioia. Questa è la caratteristica sorprendente di Flaubert e, per quanto si sappia, soltanto sua – che egli ci ha lasciato opere di un’arte straordinaria, che però non riuscirono mai, neanche nel momento del concepimento, a dargli serenità.

Il momento della scrittura è sempre difficile, dice James. Ma continua:

Spesso scopriamo Flaubert nell’atto di maledire il proprio soggetto nel momento stesso in cui sboccia; e vorrebbe non averlo mai scelto, e si dà dell’imbecille per averlo fatto, e già lo odia prima ancora di cominciare. […] A sostenerlo, c’erano solo la rabbia e la consuetudine alla fatica; il semplice amore per le lettere – lasciamo stare l’amore per la vita – sembra averlo abbandonato molto presto. Certi passi della sua corrispondenza ci inducono perfino a domandarci se non fosse soprattutto l’odio a tenerlo su.

Non essendo Flaubert, questo passo di Henry James mi fa molto ridere. Ho letto centinaia di lettere di Flaubert. Le ho lette nei Meridiani, nelle introduzioni ai suoi libri, nel meraviglioso saggio che gli ha dedicato Nabokov nel volume che si chiama Lezioni di letteratura, in cui parla di Jane Austen, Dickens, Flaubert, Stevenson, Proust, Kafka e Joyce (consiglio anche l’altro volume, Lezioni di letteratura russa), nell’Opera e il suo doppio, che raccoglie tanta corrispondenza di Flaubert, e in tantissimi altri volumi che ho studiato per scrivere questo libretto. Le ho lette per me.

Confesso che avevo un po’ di remore a conoscere l’uomo dietro l’opera che amo. Confesso che, adesso che lo conosco così bene, a volte lo amo follemente, e mi struggo per i suoi dolori, per i suoi fallimenti, e mi emoziono per le sue vittorie, e sono orgogliosa di lui, a volte mi è antipatico. Mi dà fastidio che si sia rinchiuso molto presto nella villa di Croisset – dal 1845, quindi a ventiquattro anni – e non ne sia più voluto uscire. «Mi rimetterò dunque, come in passato, a leggere, scrivere, fantasticare, fumare […]. Ho anche voglia di acquistare un bell’orso (dipinto), di farlo incorniciare e di appenderlo in camera mia dopo averci scritto sotto: Ritratto di Gustave Flaubert, per indicare le mie disposizioni morali e il mio umore sociale». Mi dà fastidio che l’unica vera donna della sua vita sia stata sua madre. Non riesco a immaginare che un uomo che crea una donna così libera – sì, per me Emma è libera – sia così fermo, immobile, nella sua vita. Poi però guardo meglio, e anche se Gustave non perde occasione per dire che sta lì, sepolto a Croisset, la villa di famiglia, in realtà ha viaggiato molto più di quanto abbia viaggiato io finora. Mi dà fastidio quando, mentre lavora a Madame Bovary, scrive che «sarà un libro sul nulla, non dipenderà da alcun fattore esterno, ma avrà come collante la forza dello stile, esattamente come la terra, sospesa nel vuoto, non ha bisogno di niente che la sostenga. Un libro senza soggetto o, per lo meno, con un soggetto quasi invisibile, sempre che ciò sia possibile». Mi dà fastidio che pensi di aver scritto, o di stare per scrivere, un libro sul nulla. Perché per me Madame Bovary è tutt’altro che un romanzo sul nulla.

O almeno, così avrei detto fino a poco tempo fa.

Perché poi è successa una cosa. Qualche tempo fa, dopo l’ennesima rilettura del romanzo – la decima? Forse di più? – ho chiuso il libro. Stavo lavorando sulla terrazza al nono piano di un bar di San Lorenzo, a Roma. Intorno a me, solo sconosciuti. Ho sollevato la testa e davanti a me, in lontananza, c’era il cimitero del Verano. Prima del cimitero, c’era lo studentato dove avevo vissuto col mio fidanzato gelosissimo. Mi è parso che tutto acquistasse un senso. Lo studentato in cui vivevo quando mi ero trasferita a Roma da poco. Il cimitero del Verano, bellissimo, poco oltre. I famosi pini di Roma che costellano una città che non ho mai sentito come casa mia.

Mi sono girata verso la mia vicina. Era una ragazza biondissima, straniera, con i capelli lunghi e lisci come quelli di una ballerina classica. Aveva degli occhiali scuri oblunghi, come fossero tirati verso l’esterno. Le labbra rossissime. Di un rosso naturale. Poteva avere una trentina d’anni. Le unghie – Flaubert ha un’ossessione per le unghie, le descrive continuamente – erano laccate di verde petrolio. Stava parlando al telefono in inglese. Avevo appena finito di leggere per l’ennesima volta Madame Bovary e ho esclamato, ad alta voce, verso la ragazza: «Ma è incredibile come abbia potuto scrivere un capolavoro del genere sul nulla!». (Chissà che cosa deve aver pensato di me quella ragazza).

In quel momento non ricordavo assolutamente questa affermazione di Flaubert che avevo letto un milione di volte. Quel “nulla” veniva da me. Come la parola “sinfonia” per le sue scene. E finalmente ho capito cos’è questo nulla.

Certo, è la storia banalissima che racconta – una donna tradisce il marito, dilapida tutti i suoi soldi e si uccide – ma, di più, sono tutte le parole insulse che si rivolgono questi personaggi (Rodolphe in particolare, il primo amante di Emma, dice frasi più stucchevoli di quelle che leggevo da bambina su Cioè, una rivista per adolescenti – e quanto si sente il ghigno di Flaubert mentre le scrive), sono tutte le situazioni insulse in cui si trovano (insulse e spesso tragicomiche) i suoi personaggi. Sì, certo, ma ancora di più è un libro sul nulla perché, a volerlo afferrare e possedere una volta per tutte, non ci si troverebbe tra le mani niente. Eppure, per centinaia di pagine, non solo lo si segue, lo si divora – io lo divoro per sapere come va a finire anche all’ennesima rilettura –, ma soprattutto lui divora il lettore.

Non so se sono riuscita a spiegarmi. Userò una frase di quelle che pronuncia Rodolphe, malignamente – perché Flaubert fa il finto tonto mentre gli mette queste parole in bocca –, ma anche Rodolphe sa benissimo di dire un mare di inutili stucchevolezze solo per portarsi a letto una donna così diversa dalle altre sue amanti parigine.

Madame Bovary è un libro sul nulla, è vero, è completamente vero. Ma quando l’hai finito – ecco la frase alla Rodolphe – tutto ti parla di lui. Per ogni cosa che succede nella vita, io spesso commento: «Come in Madame Bovary

Le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle seguenti edizioni:

B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino, 2022, p. 127

H. James, La lezione dei maestri. Il romanzo francese dell’Ottocento, traduzione di G. Mochi, Einaudi, Torino, 1997, p. 278.

G. Flaubert, Opere, Volume I, i Meridiani, Mondadori, Milano, 1997, p. LVI.

G. Flaubert, Madame Bovary, traduzione di M.L. Spaziani, Mondadori, Milano, 2020, p. XIII.


da Capire il cuore altrui. Emma, Flaubert e altre ossessioni, HarperCollins, 2024

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