- La foto di Macron con la camicia aperta sul petto villoso, che tanto ha fatto parlare, è in controtendenza rispetto alla moda depilatoria dei giovani d’oggi.
- Uomini e animali irsuti popolano l’immaginario antico e moderno, e il vello più o meno curato è un segno distintivo della loro idea di mascolinità. Ripercorrendo alcune tappe della storia della pelosità (dal vello d’oro a Chewbecca, dai Gonzalez a Gaston e alla Bestia), esamineremo la forza visiva di un modello estetico tutt’altro che superato.
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La vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali di Francia è stata attribuita da molti osservatori a un’oculata campagna di comunicazione, curata dalla fotografa Soazig de la Moissonnière, che lo ha voluto immortalare in pose meno algide e più sbarazzine rispetto alla ritrattistica borbonica. Tra i numerosi scatti macroniani ha colpito quello, realizzato a Marsiglia a margine di un comizio di metà aprile, che vede l’uscente-entrante presidente con capelli lievemente arruffati, camicia bianca sbottonata sia sul davanti sia ai polsini, cintura nera e pantaloni di alta sartoria sempre impeccabili ma qui rivelatori di una momentanea rilassatezza.
Irsuti francesismi
Si è fatto un gran parlare del manto villoso che nessuno aveva intuito sotto gli abiti ufficiali (felpe militari comprese) e che colloca non più sul capo ma sul petto quella passione per il pelo che i re di Francia coltivavano in forma di sontuose parrucche. I vari Luigi, infatti, ci si presentano nella ritrattistica cortigiana, oltre che in vesti fastose e in pose che sfidano la motilità del corpo umano, coronati da acconciature monumentali di cui resta traccia nell’uso di imparruccarsi (copiato per l’appunto dai francesi) dei giudici di Sua Maestà Britannica.
Stupisce, banalmente, che Macron non si depili, abitudine ormai invalsa nei bei fusti occidentali che ritengono così di incarnare una rinnovata mascolinità neoclassica (non classica, visto che l’ossessione per il marmo levigato e traslucido non apparteneva ai Greci, che prediligevano la peli-, pardon, poli-cromia).
In quella specola dell’estetica maschile che è la sezione azzurra dello studio di Uomini e donne, mentre sono scomparse le sopracciglia ali-di-gabbiano e le abbronzature da lampada, i ragazzi che sfilano in laica processione sono rigorosamente depilati, mostrando con orgoglio da camicie pronte a sbottonarsi da sole pelli lustrissime.
Diversamente da Macron, l’esercito di glabri (e Gabrio è il nomen-omen di un recente corteggiatore della prima tronista transessuale del programma, un titano russo con accento romagnolo da romanzo di Walter Siti) ammette il pelo, lì sì copioso, solo sul viso, con barbe e baffi di varia morfologia per cui sono nate linee di prodotti e figure di professionisti di nuovo regime.
Machismo peloso
Macron va dunque in controtendenza e, dopo aver fatto parlare di sé per il suo matrimonio, non si vergogna – per l’anomalo caldo marsigliese, dice – di esibire un intricato apparato pilifero, con l’unico vezzo di un’accurata rasatura girocollo (sia mai che un pelo sbuchi sopra il nodo della cravatta come la carpocapsa dalla buccia della mela).
È un’abitudine che ritroviamo in molti machi dell’immaginario, tra i quali due personaggi della Bella e la Bestia, versione Disney (1991), ambientata in Francia come la fiaba originale, della scrittrice Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-80): il protagonista eponimo (una bestia irsuta, cornuta, zannuta ecc.) e anche l’aitante Gaston (dal profilo e dalla dieta certo più statunitensi che francesi), il quale canta tronfio, aprendosi lo scollo a V del suo farsetto-T-shirt: «e su tutto il corpo di peli ne ho un mar» (nell’originale: every last inch of me’s covered with hair).
Per la verità i peli compaiono e scompaiono soltanto in questa occasione canterina, e il dettaglio sembra un messaggio subliminale per Belle: anche io sono un vero e peloso maschio come la Bestia e, se ti va bene quell’altro, ti posso andare bene anche io. Belle, però, lo schifa, guardando, da filosofa esistenzialista amante del collo alto, oltre il pelo.
Poeti, sovrani e alieni
Un medesimo accenno di peluria pettorale si ritrova in uno dei disegni di uomini famosi inseriti a corredo dei Ritratti (1826, in edizione definitiva) di Isabella Teotochi Albrizzi: tutti i pensatori e letterati dell’opera sono elegantemente acchittati, fino al collo coperto di jabot o plastron, tranne due, Vittorio Alfieri e, soprattutto, Ugo Foscolo, l’unico di cui si osservi un petto villoso che fa da pendant alle incipienti fedine (che sappiamo fossero rutilanti).
Foscolo, che l’autrice aveva anche amato, si presenta come il non allineato della sua galleria, il giovane ribelle politico ed estetico che posa con la camicia aperta (forse all’epoca a Venezia faceva caldo come a Marsiglia).
La variegata peluria maschile (e femminile, che lasciamo a più esperte pelologhe) è associata all’aspetto animale, non dissodato da aratri eradicanti, degli umani; personaggi come Chewbecca di Star Wars, lo wookiee errante che libererà il suo popolo schiavizzato, o come gli esponenti cinque-secenteschi della famiglia Gonzalez, affetti da irsutismo, hanno scatenato la fantasia di creativi, sovrani e pittori; in particolare, ai e alle Gonzalez, di origine spagnola ma vissuti presso Enrico II e poi inviati da una corte all’altra come fenomeni da baraccone, dedicarono ritratti Lavinia Fontana, Agostino Carracci e molti anonimi.
Il vello
Non meno letterariamente produttiva è stata l’eroica caccia di animali pelosi, culminante nella conquista del vello d’oro da parte di Giasone, in Colchide. Il manto dell’ariete più famoso della zoologia, chiamato Crisomallo, era sorvegliato da un drago; Giasone riuscì a raccoglierlo dalla quercia da cui pendeva per intercessione della principessa e maga georgiana Medea. E lo esibisce come un trofeo ai compagni, che lo toccano quasi fosse una reliquia miracolosa, con i suoi bioccoli dai riflessi baluginanti che Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, paragona alla folgore di Zeus.
Che scena vedere da lontano arrivare l’eroe avvolto in una vestaglia dorata come in una sfilata di pellicce oppure in un concerto di David Bowie o – si parva licet – di Achille Lauro.
Non ci resta che appellarci al re di Spagna acciocché conferisca al signor Macron l’Ordine del Toson d’Oro, peraltro fondato da un francese, Filippo III di Borgogna, nel 1430. Nel tiepido ricetto del presidenzial petto si troverebbe nel proprio elemento il piccolo vello dorato agganciato al collare dei cavalieri, così come, vista la tinta della sfidante sconfitta, il motto dell’Ordine: Pretium laborum non vile.
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