- Empire of lights è solo l’ultimo di una serie di lettere d’amore di grandi registi alle sale: requiem scritti nella consapevolezza che quel mondo e quel cinema sta scomparendo
- Sam Mendes celebra il tramonto della sala come luogo fisico e rende omaggio agli uomini e alle donne che la tengono in vita e a tutti coloro per cui «quel piccolo fascio di luce è una via di fuga»
- I “film nel film”, le canzoni e le colonne sonore che Mendes sceglie di usare costituiscono una selezione emotiva fatta in maniera chirurgica. Sono le radici dei suoi personaggi e dei suoi spettatori
L’atrio maestoso di un sontuoso vecchio cinema art déco è immerso nel buio. È chiuso, morto, in disuso. Sembra un’immagine che arriva dal futuro, una malinconica profezia ormai di dominio pubblico. Le luci si accendono, e il cinema riprende vita, è pronto ad aprire le porte. Sam Mendes inizia così il suo Empire of light, che uscirà da noi in Italia il 23 febbraio 2023, dopo l’anteprima al Torino Film Festival.
Non c’è requiem più eloquente sulla morte del cinema as we know it dei film che i grandi autori stanno confezionando alla spicciolata. È come se ognuno sentisse l’urgenza di misurarsi con un mutamento epocale, chiamateli consuntivi, bilanci, commiati, testamenti personali di cineasti che hanno ancora molto futuro davanti ma sanno che niente sarà più come prima.
Lo ha fatto ora Steven Spielberg con The Fabelmans, e prima di lui, a suo modo, Paul Thomas Anderson con Licorice Pizza. Quentin Tarantino, come sempre, ha battuto tutti sul tempo con C’era una volta a..Hollywood. Qualcuno, come Giuseppe Tornatore, dai bilanci precoci è partito. Quando Jacques Perrin rimette piede tra le macerie del Nuovo Cinema Paradiso, un’epopea è tramontata. Il cinema che chiude in L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich è una struggente metafora di sogni infranti, di un paese arreso e omologato.
Ce n’è a sufficienza per configurare un genere a sé: quello universalmente indicato come “lettera d’amore al cinema”. È arduo immaginare, in un remoto futuro, analoghe lettere d’amore allo streaming.
Lettera d’amore alle sale di cinema
Nell’èra in cui i content, i contenuti dettano legge, chi può si concede il lusso di celebrare la settima arte in forma classica, con film passionali e all’antica. Ecco dunque che Mendes, reduce dal pirotecnico piano-sequenza bellico di 1917, fa i conti (anche da sceneggiatore) con la prima vittima tangibile dei nuovi consumi di immagini: è la sala come luogo fisico, con gli uomini e le donne che la tengono in vita e i frequentatori, uomini e donne, per i quali «quel piccolo fascio di luce è una via di fuga».
L’Empire, tempio vintage del cinema che dà il titolo al film, in realtà non esiste. Il regista consacrato da American Beauty ha integralmente ricreato gli interni di un movie palace secolare in completo abbandono di Margate, cittadina sulla costa settentrionale del Kent. Il nome originale del cinema, Dreamland, era fin troppo esplicito per conservarlo. Ma la maestosità, la magia della sala dovevano esplodere senza risparmio dallo schermo: British beauty?
Olivia Colman, che potrebbe recitare divinamente perfino l’elenco telefonico, è la vestale sfiorita dell’Empire, manager senza vita propria, fuori da quelle mura. È una factotum a 360 gradi: controlla le matrici dei biglietti, pulisce le sale con gli assistenti ed è l’avvilito trastullo sessuale del boss (un Colin Firth superlativamente grigio e depresso). La sua Hilary è sotto terapia di litio (poi scopriremo perché) e i film non li vede mai. Ai film preferisce i poeti: recita Tennyson a memoria, ama W.H. Auden.
È il 1981, anno che a noi dice poco ma per gli inglesi è cruciale. A Downing Street c’è Margaret Thatcher, l’Inghilterra è sotto lo schiaffo di recessione e disoccupazione, esplodono nuove tensioni razziali. Il National Front fa proseliti predicando l’odio per i «musi neri» che rubano il lavoro. Quando viene assunto un nuovo bigliettaio di origine africana (Micheal Ward, giovane, bello e sensibile) la sonnolenta quotidianità del lavoro si incrina, come le sfere di vetro con la neve finta quando le apri. La sua sola presenza può scatenare reazioni rabbiose tra i vecchi, rancorosi frequentatori abituali del cinema. Stephen è l’ultimo outsider in uno staff familiare e solidale di outsider, tutti rifugiati dall’esistenza. Vive ancora con la madre infermiera, non ha i soldi per pagarsi il college e studiare Architettura. Ma ha tenerezze segrete che riaccendono in Hilary la voglia di vivere.
I piani alti dell’Empire sono un paradiso di fasti perduti: vecchie sale dismesse per crisi di affluenza e una spettrale ballroom in rovina. È tra quei detriti di splendore che Olivia-Hilary, più che stagionata, sciatta e sovrappeso, trova in quel ventenne la sua illusione d’amore e la sua certezza di contatto umano, complici le cure a un piccione dall’ala spezzata. Le metafore si sprecano, sul filo dell’ovvietà, ma Sam Mendes ha già risucchiato chi guarda negli artifici di un Impero di Luce (quello amministrato dal proiezionista Toby Jones) magico e chiuso.
È la vita la grande illusione
Empire of light è un film prevedibile, da un punto di vista drammaturgico, dal primo all’ultimo fotogramma. Non dice niente che non sia stato già detto. Ma il suo inseparabile direttore della fotografia, Roger Deakins, ti imprigiona nella materialità del cinema come mondo a parte, insieme prigione e liberazione dell’immaginario, rifugio, famiglia improvvisata per il tempo di un film o di un turno di lavoro, luogo dell’anima anche per chi sovrintende al gradino più basso della filiera.
La fragile arte del moviegoing ha colonizzato l’intero genere umano del XX secolo. Il proiezionista Toby Jones decodifica l’incantesimo del Fenomeno Phi: «A ventiquattro fotogrammi al secondo l’occhio non distingue l’oscurità». Ma l’incantesimo resta. Ci sta dicendo, Sam Mendes, che l’illusione dello schermo è un prodotto tecnico, ma che la vera culla delle illusioni è la vita reale. Colin Firth si illude di poter rilanciare le sorti del suo mausoleo quando gli viene offerta la première regionale di Momenti di gloria, con un parterre di autorità e chissà, magari anche Paul McCartney, che vive nel Kent.
Ma la serata d’onore coincide con un nuovo breakdown di Hilary, già reduce da un recente ricovero in clinica psichiatrica. Qualcuno ha notato il suo affaire col ragazzo, coltivato da lui per pietà e simpatia: meglio smettere, le ha detto Stephen. C’è una rabbiosa, magnifica Olivia Colman che prima irrompe sul palco e poi si concede una clamorosa piazzata con la moglie del capo, parafrasando l’Amleto: «Scopare o non scopare, questo è il dilemma..» Sulle note elettroniche di Vangelis che arrivano in sordina dalla proiezione, la scena è di una comicità surreale.
I film nel film
All’Empire è in cartellone Toro Scatenato, quando la donna rientra dal nuovo ricovero forzato. Stephen si è trovato una fidanzata non bianca, ma i cortei razzisti sono in pieno rigoglio. Non è per feticismo cinefilo che cito i titoli dei “film nel film”. Hanno un senso chirurgicamente preciso, come la scelta di canzoni specifiche, It’s Alright, Mama di Bob Dylan, You Turn Me di Joni Mitchell, Cat Stevens. È una selezione emotiva, come diceva il Rob Gordon di Alta fedeltà.
Quando gli skinheads devastano il cinema e picchiano a sangue il “rubalavoro” di colore, è in proiezione Stir Crazy (Nessuno ci può fermare), film di Sydney Poitier con Richard Pryor e Gene Wilder portatore di un forte messaggio di diversità. E quando finalmente Hilary fa quello che ogni spettatore smaliziato si aspetta da un pezzo, e chiede a Toby Jones di proiettare un film, uno qualsiasi, solo per lei, nella sala vuota, quel film è Oltre il giardino, miracolosa resurrezione di Peter Sellers dopo un lungo declino. «Purché non si recidano le radici va tutto bene», sta dicendo il giardiniere Sellers. E finalmente Olivia-Hilary può piangere. E ridere. Quelle radici sono sue. E sono nostre.
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