Una commedia popolare in piena regola con le mogli cornute (ma pure i mariti), e la pochade di villeggiatura, e il solito campionario di vizzi e vezzi nazionali; dicevo, una commedia popolare in piena regola che comincia però dibattendo su Čechov e Tolstoj (chi è migliore: l’uno o l’altro? chi ha ragione: l’uno o l’altro?) è già in partenza una cosa preziosa, o quanto meno inusuale. Ma è una cosa di Enrico Vanzina, dunque tutto torna: una commedia popolare in piena regola, sì, ma con radici colte, d’autore come lui è sempre stato, anche se poco capito, o capito tardi, o capito male.

Lo era quando scriveva per l’amatissimo fratello Carlo, lo è adesso che, meraviglioso settantenne, fa il regista in solitaria – dimostrando che è un’attività, quella della regia, che avrebbe potuto fare sempre, non solo per Dna ma pure per gusto, brio, mestiere compreso e padroneggiato.

Commedia teatrale

Il nuovo Tre sorelle, già vistissimo su Prime Video che lo distribuisce bypassando le sale, ha il titolo čechoviano e però inizia dalla solita equazione tolstojana sulle famiglie felici/infelici. Qui infelici lo sono tutti, e non lo è nessuno per davvero. Perché i personaggi in scena sono i caratteri tipici della commedia, molto teatrale, e ci son tutti: dicevo la moglie tradita (Serena Autieri), ma anche quella che tradisce (Giulia Bevilacqua), e poi l’eterna zitella (Chiara Francini) che si porta al seguito il finto fidanzato, quando va a trovare le prime due nella villa del Circeo in cui passano insieme le vacanze causa famiglie disgregate.

Sono loro le sorelle – no: sorellastre – del titolo, scortate da una massaggiatrice sudamericana (Rocío Muñoz Morales) ad aggiungere quel frisson upstairs/downstairs che nella commedia borghese non può ovviamente mancare. Anche la masseuse è neo-single perché ha piantato il fidanzato (spacciatore).

Tre sorelle è una commedia femminile, qualcuno azzarderà femminista, io dico sottovoce, ma nemmeno troppo: è una commedia che ha il passo d’un Allen, nel senso di Woody. Per il citazionismo letterario, certamente, con predilezione appunto per gli adorati russi. Ma pure per quel modo intellettuale con cui si burla degli intellettuali, o sedicenti tali.

Su tutti, il favoloso scrittore (interpretato brillantemente da Fabio Troiano) che ha vinto il Campiello, si è fatto la villozza al mare (un po’ troppo, considerate le vendite di questa misera epoca?) e resta ciò che sono la maggior parte degli scrittori (meglio se romani del Pigneto): velleitari, mitomani, soliti stronzi senza mai essere stati venerati maestri.

Raccontare il costume

LaPresse Colarieti

E poi c’è tantissimo cinema, incarnato dalla costumista della strepitosa Chiara Francini, ed è lì che Vanzina mette tutto il suo saggio umore, la sua comprensione si direbbe genetica di quel mondo in cui è, per l’appunto, nato e cresciuto.

Francini, nel film Caterina, dice che non è una costumista: «Io faccio schizzi di sogni». E namedroppa in continuazione i registi con cui ha lavorato, Sorrentino è solo «Paolo», Tornatore «Peppuccio», Bellocchio «Marco», e vorrebbe tanto essere chiamata da Wes Anderson, ma lui «lavora soltanto con Milena», intesa come Canonero, che però è «un mezzo bluff».

Il colpo di genio di Enrico è quando mette Francini in ospedale, e le fa chiedere alla vicina di letto l’ultimo film visto, e quella dice «Natale con… Boldi e De Sica», e Francini schifatissima replica: «Che orrore! Lei si merita il girovita che ha».

È Giulia Bevilacqua, sfinita dall’intellò consanguinea, a rivendicare la superiorità della commedia popolare, ed è lo stesso – continuo, eterno – esercizio di Vanzina, che ha sempre raccontato il costume, anche delle classi alte e “studiate”, con i mezzi che erano propri di papà Steno, con lo sguardo aperto al grande pubblico, con i codici di un linguaggio che gli autori hanno, via via, preso a disprezzare, e che lui ha invece tenuto vivo, affilato, sempre ben sintonizzato al presente che aveva di fronte. 

L’esordio

Il più lucido instant movie su Covid e isolamenti vari l’ha fatto lui, ed è stato il suo esordio alla regia. S’intitolava – lo saprete – Lockdown all’italiana, è uscito in piena pandemia, in sala l’hanno visto in pochi pure perché è stato preventivamente criticatissimo, non si scherza col virus!, la gente muore!, e altre cose (ovviamente amplificate dalla cassa social) che potete immaginare, se non le avete incrociate sulle bacheche di allora.

Era anche quella, in realtà, una commedia popolare svelta, attenta, e anche molto tenera nel descrivere, con impianto da classica farsa matrimoniale (i mariti e le mogli che prima si mettevano allegramente le corna si trovano obbligatoriamente confinati col coniuge), le piccinerie, le paure, gli egoismi, i vittimismi di tutti quanti noi. (Momento indimenticabile: Ezio Greggio che guarda dal divano, come abbiamo fatto noi per mesi, Sapore di mare).

Non so se è stato per via delle critiche al film precedente, ma all’inizio di Tre sorelle i figli di Serena Autieri dicono alla madre appena piantata dal marito che ha fatto coming out: «Qual è il problema: siamo nel 2019!». Così, a scansare tutti i rischi della pandemia. Anche questo è il genio di Enrico Vanzina.

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