L’infanzia senza voce dei piccoli “lustrascarpe” del Dopoguerra viene ora alla luce in un volume di Bruno Maida, che raccoglie le loro storie grazie ad archivi e giornali
Sciuscià ha origine dalla storpiatura di una parola inglese, shoe-shine, che indica bimbi e ragazzi che nell’immediato dopoguerra facevano i lustrascarpe per racimolare di che campare. Il termine, all’epoca noto a tutti, ha avuto larga fortuna; ogni tanto riemerge nelle occasioni più disparate, come un fiume carsico, anche in termini bizzarri come “sciusciaismo” o “industria sciusciatoria”.
Nasce dalle «macerie nelle quali camminano, giocano, lavorano, cercano di sopravvivere i molti bambini orfani, profughi e poveri che sono a loro volta un prodotto della guerra»: così troviamo scritto ad inizio del primo capitolo di un importante e intrigante libro di Bruno Maida, Sciuscià. Bambini e ragazzi di strada nell'Italia del dopoguerra (1943-1948), edito da Einaudi e appena arrivato il libreria. Un “prodotto della guerra”; proprio così, e sono parole che richiamano le tragedie dei nostri giorni in Ucraina e a Gaza che appaiono sempre di più situazioni analoghe a come si trovarono i bambini italiani dopo la tragedia della guerra perduta di Mussolini e di Hitler: macerie, vite spezzate, bruciate, fanciullezza cancellata, inenarrabili tribolazioni, futuro fosco, incerto.
Con questo libro Maida porta avanti un’ampia ricerca sui ragazzi, sull’infanzia, sui bambini di diverse epoche storiche che certo non si esaurisce con le cose scritte sinora: l’infanzia è un gigantesco deposito di storie, fatti, episodi, narrazioni che sono in attesa di chi sia in grado di saperli ordinare su carta facendoli uscire dall’oblio e dando loro nuova vita. E nel libro ci sono importanti piste di ricerca per chi le volesse seguire. I dati di quanti bambini abbandonati che popolano le città distrutte e vagano da un luogo all’altro sono impressionanti: 75mila sciuscià a Napoli, 65mila a Roma, 40mila a Milano. In tutta Italia i bambini e i ragazzi abbandonati sono tre milioni, cifra spaventosa. Alla loro età non hanno voce – o è molto flebile – perché i deboli e i poveri sono i più fragili e non hanno modo di esprimersi. Non hanno lasciato tracce scritte perché non sanno né leggere né scrivere, non hanno proprietà, non posseggono case o altro, e dunque non si possono trovare tracce negli atti notarili. In queste condizioni come si può raccontare la loro vita materiale, la miseria, la fame che è loro compagna inseparabile, e i sentimenti, i sogni e le paure, le angosce e le speranze di questa enorme massa di minori?
Restituire una voce
Maida ha trovato un modo davvero innovativo e originale per superare gli ostacoli. Racconta quel che è successo attraverso vari archivi e tanti articoli dei giornali; sa ascoltare la voce dei piccoli, quando ciò è possibile (i temi in classe di una scuola elementare di Napoli sono una perla), o dei testimoni dell’epoca, e poi inanella le storie con l’ausilio dei tanti film che fanno da cornice alla narrazione. I film, i molti romanzi e successivamente le foto, diventano a tutti gli effetti documenti storici da utilizzare con le cautele del caso che lo storico sa bene come padroneggiare. Tra i tanti registi citati che si occupano d’infanzia si incontra Luigi Comencini definito il «regista dei bambini». Il neorealismo è la porta d’accesso per la rappresentazione dei minori del tempo. La suggestione è molto forte e ha due pregi. Il primo è far tornare indietro nel tempo chi quei film li ha visti e chi quei libri li ha già letti, e oggi si ritrova a ripensarli con il bagaglio culturale accumulato nel corso del tempo; il secondo è far scoprire ai giovani la potenza di quelle immagini e la forza di una letteratura molto importante suggerendo linee di lettura o di visione di vecchi film a giovani che vivono in tutt’altra realtà.
Ci viene incontro una folla variopinta di bambini abbandonati, figli illegittimi, non riconosciuti, bambini poveri, orfani che popolavo i vari istituti di assistenza, giovani che entrano nella categoria, con un forte stigma sociale, delle “classi pericolose” e che fanno truffe, piccoli furti, i contrabbandieri, gli accattoni; e non mancano le fanciulle che finiscono nel circuito della prostituzione. È davvero un inferno. A contarli, sono morti più bambini che soldati, «confine che sembrava invalicabile, quello della sacralità e inviolabilità della vita dell’infanzia». E torniamo di nuovo all’oggi con i tanti bimbi vittime delle bombe dei grandi.
I bambini, tutti, meridionali e settentrionali, non hanno voce, e parlano attraverso i tanti che hanno messo in piedi forme di assistenza laica – Udi, Pci, Psi – e cattolica, salesiani in testa e i tanti sacerdoti che raccontano le esperienze a contatto con questa umanità difficile che si cerca di riscattare e di trasformare in “ragazzi di don Bosco”. Poi c’è lo Stato con le sue difficoltà organizzative e le sue politiche repressive figlie del fascismo ma le cui radici affondano all’epoca dell’Italia unita quando si concretizza “l’invenzione di una categoria: quella della ‘pericolosità sociale’” che porta all’arresto e poi alla reclusione dei ragazzi di strada. Manca un’istituzione cruciale, la scuola. Ma «a scuola gli sciuscià non ci vanno».
Maida parla degli sciuscià, ma attraverso le loro storie e le vicende minuziosamente descritte parla dell’Italia che uscì sconfitta e in rovina dall’esperienza fallimentare del fascismo e si rivolge al mondo degli adulti perché facciano tesoro di quanto leggeranno e custodiscano al meglio il loro passato perché il presente sia migliore.
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