È allenatore dell’Uruguay da un anno e ha riportato la squadra in semifinale di Coppa América dopo tredici, eliminando il Brasile. È dogmatico, audace, etico, la quantità di suo allievi bielsiani è sconfinata, va da Guardiola a Pochettino a Marcelo Gallardo. Insegue solo il proprio stile, non dà mai interviste, in conferenza stampa ha detto: «La felicità dei gol sono l’ultima cosa che i poveri possono permettersi»
Il proposito di Marcelo Bielsa, allenatore dell’Uruguay da un anno, è di far esplodere l’immaginazione in campo e in conferenza stampa, nei suoi calciatori, nei tifosi e nei giornalisti. Per questo più si allarga l’orizzonte di sguardi più aumenta la sua fama. Perché non somigliando a niente, ci riesce benissimo. Ora tutti scoprono che non solo è una anomalia calcistica, ma che è anche capace di vincere e riportare l’Uruguay dopo tredici anni in una semifinale di Copa América, e forse anche di ritornare a vincerla.
Quello che non sa chi si è perso le puntate precedenti è che Bielsa insegue solo il proprio stile e la sua riconoscibilità, il resto ne è la conseguenza. Vittoria e sconfitta non sono niente se si conseguono senza stile, quindi senza linguaggio. E il linguaggio di e in Bielsa è tutto. Si parte dall’eversione dei suoi calciatori in campo e si finisce con l’eversione delle sue dichiarazioni. Gesti e parole. Azioni e dichiar-azioni.
Adesso tutti impazziscono perché nell’ultima conferenza stampa – da sempre non rilascia interviste come Milan Kundera, farebbe a meno anche delle conferenze che finisce per trasformare in continuazioni delle partite – ha ripetuto che il calcio sudamericano è vittima degli espropri del capitalismo arabo-occidentale, e che la felicità dei gol sono l’ultima cosa che i poveri possono permettersi. Lo dice da un po’, ma dirlo negli Stati Uniti fa più effetto, soprattutto dopo aver anche confuso McDonald’s con un calciatore e aver fatto in tempo a fargli un tunnel dicendo che no, non ama quel cibo e quella concezione di consumo.
Insomma, Bielsa come Eddie Murphy può dire cose terribili con la semplicità dei bambini, evadendo dalle ingessature della società americana e di quella calcistica ancora più blindata. È come se in ogni partita e poi in ogni conferenza stampa Bielsa si chiedesse e poi chiedesse a tutti – avversari, tifosi e giornalisti – dov’è l’anima del calcio? Dando il suo stile come una delle possibili risposte. A guardarsi intorno anche l’unica credibile. E più il calcio peggiora, più si gioca, più si abbassa il livello dello spettacolo, più Bielsa e il proprio stile di sottrazione e ricerca dell’azzardo trovano adepti.
È dogmatico, audace, etico e appartiene all’aristocrazia filosofico-sportiva che l’Argentina genera di continuo, la stessa stirpe di Julio Velasco e Sergio Vigil. Uomini che lottano con i propri limiti e non li coccolano, che teorizzano sullo sport e nello sport e insegnano a farlo a tantissimi altri. La quantità di allievi bielsiani è sconfinata, va da Guardiola a Pochettino a Marcelo Gallardo, tanto che Damián Giovino ha provato a contarli e intervistarli, ne è venuto fuori un libro – El legado de Bielsa – che sarebbe un grande documentario, perché dalle pagine si sente il tono degli innamorati, ma non si vedono gli occhi.
Bielsa è così: estremo. Prendere o lasciare: amato, seguito, studiato o sminuito. Accende guerriglie – come Ernesto Guevara, col quale divide la città di nascita: Rosario – dall’Argentina al Cile, dal Messico alla Spagna, dalla Francia all’Inghilterra e ora all’Uruguay; un guerrigliero del pallone, passa, regala utopie, getta le basi per un metodo evolutivo, e poi se ne va. Ma dove passa cresce calcio, differente. Perché porta il fuoco, avrebbe detto Eduardo Galeano vedendosi finalmente soddisfatto da «mendicante di bellezza calcistica». Marcelo Bielsa e il suo Uruguay ne hanno mostrata tanta in questa Copa América che sta per finire, meno nell’incontro col Brasile, vinto ai rigori e giocato in dieci, con una prevalenza difensiva, ma con più azioni offensive degli avversari, ha sottolineato.
Per dire erano tre, ma erano ben fatte. Non si sta vantando, sta analizzando il proprio gioco. Bielsa nelle sue uscite sembra avere una educazione giapponese e non sudamericana, mettendosi al servizio del calcio prima ancora delle squadre che allena, è una forma di disciplina del lavoro e di concezione della vita. In uno dei tanti documentari su di lui, una signora anziana dice: «Quando l’ho conosciuto, ho pensato che fosse povero, e invece no, era umile». E l’umiltà Bielsa l’ha elevata a difesa, facendone strumento di ricerca. Perciò è incontentabile.
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