L’ultimo romanzo Eredi Piedivico e famiglia è una saga concentrata, ristretta (come un dado da brodo), da cui si sprigiona l’aroma della grande storia, il passaggio epocale dell’Italia novecentesca dalla campagna alla città. E sempre, in tutto il racconto, si sente sul fondo un canto di gallinelle d’acqua, sempre più fievole, sempre più lontano. Con un incipit migliore di quelli presenti nei libri di chi è candidato al premio
Oreste Piedivico è un veterinario di Manerbio. Suo padre era notaio e avrebbe voluto che il figlio seguisse la tradizione di famiglia ma così non è stato. All’epoca, negli anni Trenta, era uno scarto rispetto alla norma, ma Oreste, uno dei personaggi di Eredi Piedivico e famiglia, il nuovo romanzo di Andrea Vitali pubblicato da Einaudi Stile Libero, non è un ribelle. Gli piace scorrazzare sulla sua «sedicente Benelli», restaurata dal meccanico Sgualazzi, per le strade di polvere fermandosi nelle cascine a curare i suoi clienti («cavalli, vacche, vitelli, buoi») e, se capita, anche qualche umano in difficoltà. Come la volta che, eseguendo una impeccabile e non rimandabile perineotomia, ha fatto partorire una donna. Senza il suo pronto intervento il bambino non sarebbe mai nato.
A Oreste piace, andando in moto la mattina presto e fischiettando la canzone Reginella («Distrattamente pienze a me»), godersi in solitudine la vista della campagna. Gli sembra di vivere in un piccolo Eden. Dopocena ascolta, seduto in poltrona quasi al buio, arie d’opera da una formidabile radio Adorni (il primo apparecchio del genere arrivato a Manerbio), come faceva suo padre (pucciniano spinto), tradizione di famiglia questa volta seguita.
Al momento il dottor Piedivico oppone un netto rifiuto alla possibilità di sposarsi. Però le donne gli piacciono e ha avuto i suoi amorazzi in cui ha messo «più la veemenza della gioventù che non la grazia del sentimento». Indimenticabile, ai tempi in cui era ancora studente, l’avventura con la Malena, la lattaia (nomen omen). C’era stata poi la Selene, una cugina al primo fidanzamento che, non volendo apparire una sprovveduta agli occhi del partner, aveva chiesto a Oreste una dimostrazione pratica e non teorica di come ci si deve comportare con un fidanzato. E lui le aveva impartito una lectio magistralis.
Finché una mattina, chiamato a castrare un cavallo in un casale dei dintorni, il dottor Piedivico si è imbattuto nello sguardo enigmatico e nel taglio «altezzoso» delle labbra di Lidovina, la figlia dell’allevatore Erio Anzibene, e non è più riuscito a scacciarsela dalla testa.
Il fatto è che Lidovina (enigmatica non solo nello sguardo ma in tutto il suo modo d’essere) è promessa a Ottaviano Pendoli, proprietario di una cascina vicina a quella degli Anzibene. Però una cosa è accasarsi con un agricoltore, un’altra è sposarsi con un veterinario avviatissimo nella professione e residente in città (la villetta che fece costruire il notaio) e non in campagna. Al padre di Lidovina non sfugge quale sia la scelta migliore per la figlia (che non ha sangue da contadina secondo il suo giudizio). Conoscendone la capricciosità, l’uomo si muove con accorta diplomazia. Così una sera convoca Lidovina in salotto «Io ti dico come stanno le cose, poi deciderai tu» esordisce. Quindi la mette al corrente delle intenzioni del dottor Piedivico.
La scena ha una sua solennità. A partire dalla colonna sonora naturale, a chilometro zero: «Nell’aria si sentiva il canto di alcune gallinelle d’acqua che abitavano uno stagno non molto lontano dalla cascina». Solenne è anche la postura dell’enigmatica ragazza: «Lidovina aveva un aspetto regale, o perlomeno così sembrò al padre, seduta su una poltroncina davanti a lui, nel salottino di casa che conservava il sapore di antichi riti domenicali, festivi. Ne era buon testimone una bottiglia di liquore indefinibile, il cui zucchero si era cristallizzato sul fondo e tutto intorno a un ramo, forse di ginepro».
Pura pittura italiana dell’epoca, quasi una natura morta di Morandi. Vitali dà un’ultima pennellata, decisiva, al quadro: «Nell’oscurità adesso risaltava l’essenziale, qualche angolo di mobile, la figura alata composta all’uncinetto sulla tendina che copriva l’unica finestra. Il profumo quasi liquoroso della stanza aveva preso corpo, tanto ineffabile quanto peculiare rispetto agli altri ambienti dell’edificio. La luna a tre quarti calava, avrebbe portato un poco di luce; a Lidovina parve di vedere il biancore dei denti del padre, uno squarcio nel piccolo cielo del salottino».
In quel buio si compiono più destini. Nel gioco della torre nuziale cade Ottaviano Pendoli, coltivatore diretto, mentre resta saldo in cima Oreste Piedivico, dottore in veterinaria.
Eppure i giochi non sono fatti. C’è qualcosa di strano e la promessa sposa lo avverte. È come se partecipasse a una seduta spiritica, o si trovasse dentro una poesia di Emily Dickinson, la sua più bella: «Questa polvere quieta fu signori e fu dame, / e giovani e fanciulle, / fu riso, arte e sospiro / e bei vestiti e riccioli». Versi/requiem che meriterebbero di stare in esergo al romanzo per annunciarne, come nelle licitazioni del bridge, il sentimento che lo governa.
Oreste e Lidovina si sposeranno, passeranno la guerra, avranno un figlio (di salute cagionevole ma che diventerà un brillante avvocato), qualcuno morirà, qualcuno si ammalerà (di morbi confacenti alle varie epoche attraversate, dalla tbc alla depressione), si celebreranno nuovi matrimoni e altre risate, altra arte, altri sospiri, altri bei vestiti e altri riccioli torneranno a essere polvere nella polvere come vuole l’avvicendarsi delle cose umane nell’implacabile algoritmo della vita.
Una narrativa nazionale e popolare
L’ultimo romanzo di Andrea Vitali è una saga concentrata, ristretta (come un dado da brodo), da cui si sprigiona l’aroma della grande storia, il passaggio epocale dell’Italia novecentesca dalla campagna alla città. E sempre, in tutto il racconto, si sente sul fondo un canto di gallinelle d’acqua, sempre più fievole, sempre più lontano.
Molti anni fa, deciso a risolvere un mistero per me inspiegabile, chiesi perché non assegnavano il premio Strega ad Andrea Vitali, uno degli scrittori italiani più bravi, autentici, ricchi (di fantasia, humour e talento), prolifici, continuatore in splendida solitudine di una tradizione narrativa plurisecolare, nazionale e popolare. E lanciai anche una campagna perché vincesse lo Strega uno scrittore vero (facendo i nomi di Vitali e di Camilleri), alla quale aderirono molti lettori.
In quell’occasione, era appena uscito il romanzo di Vitali Almeno il cappello, lodai, tra l’altro, la sua bravura nel dare i nomi giusti ai personaggi perché il battesimo è un sacramento fondamentale per un romanziere. E il lettore Alfonso Francia mi scrisse: «I nomi dei personaggi di Almeno il cappello di Andrea Vitali sono un romanzo nel romanzo. Battezzare il parroco del paese don Santo Patroni significa inventare una storia con due parole (un po’ come fece Silone con il don Abbacchio di Fontamara). Più questi nomi suonano improbabili (Evelindo Nasazzi, Gemmo Parpaiola, Libero Boldoni) più chi li porta mi sembra vivo e reale».
Ma né quell’anno né dopo Vitali vinse il premio. Pare che non possedesse, mi assicurarono molti addetti ai lavori, i requisiti letterari necessari.
Ora, se rileggete con calma la scena nel salotto di casa Anzibene (infestato da fantasmi come in una storia alla Henry James?), vi chiederete di quali requisiti letterari Vitali sia carente e mi piacerebbe girare la domanda a coloro i quali si attovaglieranno la sera del prossimo 4 luglio ai tavoli del Ninfeo di Villa Giulia per eleggere il romanzo italiano più bello della stagione.
Allegherei alla domanda (in carta da bollo, se necessario) gli incipit estratti a sorte di due romanzi in concorso stavolta allo Strega. Uno è L’età fragile della sicura vincitrice Donatella Di Pietrantonio (Einaudi “Stile non Libero”), e incigna: «Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola. Amanda è tornata, mi guardo intorno e inciampo nelle sue tracce: sul bracciolo del divano il piatto con un pane smozzicato, e nel bicchiere un residuo di bevanda.»
L’altro è Chi dice e chi tace di Chiara Valerio per Sellerio (la vincitrice morale, si dice) e incigna: «Le bambine, scese dalla macchina, si erano messe a correre e non ci avevano salutato. Ferma sulla porta, mia madre le aveva abbracciate e mi aveva sorriso sollevando il mento come a dire Non ti preoccupare.»
Letti i due incipit io mi preoccuperei e solleverei il sopracciglio come Mister Ancelotti, il più grande allenatore del mondo, quando vede che le cose in campo non vanno come devono andare. Sono questi, dunque, i libri che possiedono i requisiti letterari indispensabili per accedere al Ninfeo?
Ora vi prego di leggere l’incipit di quell’illetterato di Vitali: «Classe 1901, nato a Manerbio, provincia di Brescia, Oreste Piedivico di professione era veterinario. Figlio di notaio, nonostante i pacati inviti – paterni e non solo – a considerare di proseguire nell’attività di famiglia, visto che la strada gli era già stata spianata, fin da giovane aveva dimostrato un’innata passione nei confronti degli animali che niente e nessuno erano riusciti a scalfire».
Già ad accensione del motore romanzesco nessun confronto è possibile. È come voler paragonare una canzoncina con l’Auto-Tune (gli incipit robotici Di Pietrantonioz e Valeriez), a My Way di Frank Sinatra (l’attacco di Vitali): «And now, the end is near / and so I face the final curtain…».
Altro nerbo, altro vigore. Evviva l’illetteratura! Evviva la Premiata Ditta di Narrativa Andrea Vitali (Senza Eredi & Senza Rivali).
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