Uno, nessuno, centomila… difficile ingabbiare un attore eclettico come Fabrizio Bentivoglio in una tipologia di ruoli. In più di quarant’anni di carriera ha saputo togliersi la maschera sul palcoscenico e sul grande schermo con autori come Strehler, Scaparro, Salvatores, i fratelli Taviani, Bellocchio, per citarne solo alcuni. Questa volta l’attore milanese si rimette a nudo con il ruolo di una vita: quello di un inedito Luigi Pirandello al cinema in Eterno visionario di Michele Placido.

Fabrizio Bentivoglio nei panni di Luigi Pirandello non è una scelta ovvia, che cosa ha visto Michele Placido in lei che altri attori non hanno?

Questo film non è il frutto di 11 settimane di riprese, ma di più di 40 anni di amicizia e di condivisione con Michele. Insieme abbiamo fatto cinema, teatro e poesia, ed era naturale che andasse così. Era da anni che mi parlava di questo Pirandello “privato”, quindi ho avuto molto tempo per avvicinarmi alla materia e farla mia. Michele non ha mai avuto dubbi su di me e quando senti questa fiducia pressoché illimitata, come fai a deluderla? Non puoi, ti obbliga a fare benissimo, a superare qualsiasi limite.

È un personaggio che l'ha messa in crisi?

No, sembra incredibile ma già nel 1999 avevo girato insieme a Valeria Bruni Tedeschi La Balia di Marco Bellocchio. Il film era tratto da un racconto di Pirandello e dietro ai nostri due personaggi, uno psichiatra e la moglie che dava segni di squilibrio con l’arrivo della maternità, c’erano Luigi e la moglie Antonietta, quindi in qualche modo lo conoscevo già intimamente. Tra l’altro nel film di Bellocchio c'era anche Michele Placido in una piccola parte… perciò si, sembra veramente una di quelle sincronicità della vita a cui non si può sfuggire.

Scoprire un Pirandello privato le ha fatto vedere le sue opere con una luce diversa?

Sicuramente, credo che anche a scuola dovrebbero cercare di raccontare l’autore prima di imporre le sue opere. Capisco che è una figura complessa per un adolescente, ma scoprire la vita privata di Pirandello è la miglior chiave di lettura per i suoi testi. Anche il termine “pirandelliano” significa qualcosa di difficile da capire, di complicato, non di attinente alla poetica di Pirandello. Il nostro film svela un Pirandello poco conosciuto che spero aiuterà il pubblico, soprattutto quello giovane, a capirlo di più.

A proposito di poetica “pirandelliana”, lei da attore si sente uno, nessuno, centomila?

Il nostro lavoro ci porta sicuramente ad assecondare quest'intuizione pirandelliana. Raccontano che quando Luigi Pirandello ha sentito per la prima volta la sua voce registrata è rimasto di stucco. Di fronte alla sua espressione sbalordita, il fonico gli ha detto: «Maestro, quella che siamo convinti essere la nostra voce non è mai quella che sentono gli altri». E Pirandello l'ha guardato e gli ha detto: «È tutta la vita che cerco di spiegare questa cosa!». 

Anche lei ha sentito questa specie di estraniamento quando si è visto e ascoltato per la prima volta?

Credo che sia successo a tutti di non riconoscerci ascoltando per la prima volta la nostra voce. La stessa cosa vale per il rivedere se stessi fotografati o addirittura filmati. Rivedersi è una cosa che si impara a fare, non è facile, perché si tende a essere ipercritici, da attori poi non ne parliamo… mi è capitato più volte che dei ciak in cui non mi piacevo e pensavo di aver sbagliato venissero apprezzati moltissimo dal regista, quindi è una questione di punto di vista. Al cinema la soggettività dell’attore conta pochissimo, mentre il teatro ti dà la possibilità di rifare meglio il giorno dopo.

Fare l'attore vuol dire togliersi la maschera, la recitazione l'ha aiutata a trovare se stesso?

Sì, è un lavoro con cui evolvi e che diventa completamente la tua vita, se no, non lo puoi fare…

Ma come si è sentito la prima volta che si è visto ingigantito sul grande schermo? Nudo, vulnerabile?

Stiamo parlando di moltissimi anni fa e per via del mio grande senso del pudore mi sentivo molto in imbarazzo, era come se non fossi io, ma ero io… quindi ho vissuto uno scollamento che più pirandelliano di così, si muore.

Quali sono gli attori o i film che le hanno fatto osare di pensare al cinema?

Lawrence d’Arabia fu una folgorazione per me, è il primo film che mi ha veramente emozionato e turbato. Lo schermo del cinema dove lo proiettavano mi sembrava talmente enorme che ero costretto a muovere la testa da destra a sinistra come in una partita di tennis, e Peter O’Toole… straordinario. È chiaro che da piccolo non mi rendevo conto dell’impronta che quella visione mi avrebbe lasciato. Il desiderio di essere su quel grande schermo è riemerso tanto tempo dopo. Ho finito il liceo scientifico, ho fatto addirittura un anno di medicina per una promessa fatta a mio padre, poi finalmente mi sono deciso a iscrivermi alla scuola del Piccolo. L’ho frequentata per soli due anni perché ho cominciato subito a lavorare, che è la vera grande scuola per un attore. Però quella base di partenza, la visione di spettacoli formidabili con la regia di Strehler al Piccolo, dall'Arlecchino servitore di due padroni al Giardino dei ciliegi, hanno formato un gusto e un modo di approcciarmi alla materia che mi è rimasto.

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Lei ha iniziato in un periodo storico, gli anni 80-90, di crisi del cinema italiano, i grandi del dopoguerra non mollavano e non erano certo disposti a far crescere nuove generazioni. È rimasto deluso dai maestri dell’epoca?

No, non posso dire di essere rimasto deluso, perché ho fatto in tempo a odorare la scia che lasciava quella grande generazione del nostro cinema e del nostro teatro. Quando sono arrivato a Roma nel ’79 per fare Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi con la regia di Giorgio De Lullo e i costumi di pizzo fatti da Tirelli, c’era ancora il sentore di Luchino Visconti e di quella che era stata la loro scuola. Ho avuto la fortuna di vederli ancora all’opera e di condividere il palcoscenico con gente come Tino Carraro o Romolo Valli. Questo non è un lavoro che si impara a scuola, è un lavoro artigianale che impari sulle tavole, facendolo, vedendolo fare e rubando a chi lo sa fare.

Quanto è stato importante per la sua carriera aver trovato dei compagni di viaggio come Salvatores, Soldini o Mazzacurati?

È stato altrettanto importante, perché appunto i grandi maestri servono quando sei ancora cucciolo, apprendista stregone e hai tutto da imparare. Però poi il lavoro dell’attore va di pari passo con la tua crescita di uomo.

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Eterno visionario racconta anche la difficoltà di invecchiare di Pirandello, costretto per via dell’età a un amore platonico con Marta Abba, la sua musa ispiratrice. Lei come vive il tempo che passa? Vedersi invecchiare sullo schermo aiuta ad accettarsi?

Sì, a un certo punto, inevitabilmente non ti offrono più i ruoli da ragazzo, non vieni più visto come un figlio ma come un padre. Io lo sono diventato prima sullo schermo che nella vita, in un altro film di Michele Placido, Un eroe borghese, in cui interpretavo Giorgio Ambrosoli che aveva tre figli. Vedo i miei anni passare sullo schermo con grande meraviglia perché non ho visto i miei genitori invecchiare e quindi nella mia testa non avevo previsto di diventare anziano. Rimango con un senso quasi di stupore quando mi vedo oggi, ma non mi fa paura.

Essere o apparire… Come vive la “maschera” della celebrità?

La celebrità è qualcosa di anormale a cui ci si deve in qualche modo adattare e abituare, ho imparato a maneggiarla col tempo e non avendo social riesco a proteggermi. Ma se lei sostituisce la parola maschera con quella di avatar o profilo social, capisce quanto Pirandello stia parlando di noi e del nostro presente. In questa continua lotta tra vita e forma, tra verità e finzione, tra il nostro io e le maschere che siamo costretti ad indossare quotidianamente, Pirandello ci dà per sconfitti naturalmente. L'unica chance per sopravvivere è quella di sorridere amaramente della nostra sorte, oppure di impazzire. Io ho la fortuna di poter attivare la mia, come scriveva Pirandello nel Berretto a sonagli, “corda pazza” in scena o sullo schermo.

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