Gentile Lettore,

C’è niente di più incredibile della posta? È talmente incredibile che persino i più audaci mondi inventati non sanno replicarla, nella sua banalissima inverosimiglianza, e la sostituiscono dunque con gufi incantati, corvi addestrati, ologrammi affidati ai dischi rigidi dei droidi, lunghissime perigliose cavalcate e arcangeli gabrieli. Zoom, per dire, lo aveva già descritto per filo e per segno David Foster Wallace, un quarto di secolo fa, con la videofonia di Infinite Jest; la didattica a distanza (e i suoi pericoli) l’avevano sviscerata Platone col mito della caverna e le sorelle Wachowski di Matrix, coi corsi remoti di kung fu ed elicotterismo. La posta invece resiste, pre-esiste alla fantasia, è fantastica di per sé.

La meraviglia della posta

A pensarci un attimo è difficile spiegarla, razionalizzarla. Uno non può che crederci e basta, come un decreto legge, come la gravità. Non a caso il timbro postale, come si dice, “fa fede”. Non a caso le storie più spaventose e impossibili, dal Frankenstein di Mary Shelley alla Carrie di Stephen King, fingono di essere fatte di posta, approfittano dell’indubitabilità postale. Non a caso lo zio panzone di Harry Potter sigilla la buca delle lettere per evitare che la magia gli entri dentro casa.

La sconfitta di Trump, quest’aria di crepuscolo dei populismi, la dobbiamo alle poste. Alle poste dobbiamo le Eroidi di Ovidio e il dizionario d’inglese di Oxford, nonché la laurea in legge di Nelson Mandela, quella in economia di Arnold Schwarzenegger e quella in produzione cinematografica di Steven Spielberg – che spedì, come tesi, una videocassetta di Schindler’s List.

Per corrispondenza si può dunque votare, edificare un immaginario o un linguaggio, studiare, sovvertire più le leggi del tempo che quelle dello spazio. Le lettere, come i vasi e le monete e le colonne e i nomi di luoghi, sopravvivono ai secoli, alle loro supposte funzioni originali, e diventano Storia. Come le poesie o gli incantesimi, agiscono direttamente sulla realtà; le fanno cambiare corso. La inventano. La lettera a Francesco Vettori in cui Machiavelli gli presenta il Principe è più importante, mi azzardo a dire, del Principe. La lettera che Raffaello scrive a Leone X per intimargli di conservare le antichità di Roma è tutto, tutto, il Rinascimento italiano. Probabilmente Dante non ha scritto la lettera a Cangrande della Scala che si trova, firmata da Dante, in tutte le edizioni delle opere di Dante, eppure non riusciamo a non far finta che invece sì.

La quotidiana meraviglia della posta ha a che vedere, credo, con quella del quotidiano; codesto fascio di carte che si stampa tutte le notti e tutte le mattine si trova da tutte le parti. Mi pare proficuo scriverne su un quotidiano che, pur nato nel 2020, non ha resistito alla tentazione di farsi materiale, di essere spedito ogni giorno agli indirizzi postali degli abbonati e delle edicole. Che senso ha una roba simile se non quello di chi, pur magari nativo di Instagram, si ostina a spedire cartoline olografe dalle destinazioni di gite scolastiche e vacanze di primavera coi veri francobolli e i timbri e tutto? La promessa della testata, Domani, è appena più modesta di quella di Cristo al ladrone timorato, che diceva «Oggi stesso sarai con me». Domani questa cosa che sto scrivendo ora sarà nelle tue mani, aspetta e vedrai.

Ritagli e mittenti fasulli

A messa non si fa che leggere lettere d’altronde, trascritte su quel foglietto che pure ha una sua testata e sembra appunto un giornale. La poesia sperimentale è piena di ritagli di giornale e di progetti postali: prima delle circolari e dei copia-incolla su WhatsApp c’erano le reti di poesia radicale tra Italia, Brasile, Giappone, Svizzera e America: pazzeschi sabba a distanza tenuti insieme dalla colla dei francobolli. I francobolli veicolano gli acidi lisergici, fungono da valuta nei posti dove i soldi non possono entrare – le prigioni, certe biblioteche. Una volta mi è capitato di dover spedire per posta una dozzina di francobolli come pagamento per le scansioni di un libro raro, recapitate invece digitalmente.

Sono ossessionato dalla posta, credo, per tre motivi. Il primo è che un mio studente, laureatosi su Manzoni e Melville, è poi andato a Portland a fare il postino. Eroicamente, lo scorso autunno, ha consegnato buste e pacchetti nella stagione degli incendi apocalittici e della pandemia in Oregon. Nella solitudine allucinante di tale stagione postrema, per nulla lenita dalle video-connessioni e dalla messaggistica istantanea, ha escogitato un gioco per cui se uno invia una lettera all’indirizzo vero di un certo ristorante di hamburger sul fiume Willamette (921 SE Powell Blvd, 97202 Portland OR, USA) ma adduce un destinatario falso (tipo Alessandro Manzoni, o Herman Melville), lui la riceve personalmente all’ufficio postale e la rimanda al mittente. Questa cosa virale e affettuosa, come gli squilli che si facevano al cellulare prima dei piani tariffari, m’incanta, perché un apparato mastodontico di aerei e magazzini e camionette e lavoratori l’autorizza in cambio di un francobollo (forse due o tre dall’Italia; prova, funziona). Il secondo motivo per cui sono ossessionato dalla posta è che sostanzialmente di mestiere scrivo lettere di raccomandazione per i miei studenti e ne sollecito per me dalle mie maestre, in una specie di catena di Sant’Antonio che non finisce mai. Addottorarsi in Lettere, fare il letterato, tutte cose assai più letterali di quanto mi aspettassi. Il terzo motivo è Chiara Valerio, la scrittrice.

Scambi epistolari

Due anni e mezzo fa Chiara Valerio fu invitata a parlare di Natalia Ginzburg al centro italiano di cultura a New York, e a sua volta invitò me a presentarla. Parlò di Caro Michele e spiegò ai newyorkesi, in inglese, due cose: che Caro Michele parla di suo nonno (del nonno di Chiara Valerio, un signore che si chiamava Michele), e che Caro Michele, come ogni libro fatto di lettere, ha la prerogativa di trasportare letteralmente chi legge nella cronologia della finzione. Leggendolo, voglio dire, uno riceve la trama in tempo reale (o meglio, nel tempo che è il contrario della realtà: il tempo della favola). Le lettere fanno reale il tempo.

Dopo questa lezione fulminante di Chiara siamo andati a dormire a casa di Jhumpa Lahiri a Brooklyn, a due passi dallo studio di Spike Lee – il cui libro preferito, Platitudes di Trey Ellis, è sostanzialmente un romanzo epistolare. Sul frigorifero trovammo una lettera di Jhumpa, che da Roma ci accoglieva laggiù. C’era anche una di quelle cartoline che qui si mandano agli amici per Natale: una recente foto di famiglia affrancata e spedita per posta, con un messaggio di auguri. La famiglia era quella di Barack Obama. Tra le firme c’erano quelle di Bo e Sunny (i cani). La mattina dopo presi prestissimo il treno per Filadelfia perché avevo lezione e, sul treno, mi resi conto con orrore di aver dimenticato il computer a New York. Il direttore dell’istituto, per nulla turbato, mi chiese l’indirizzo dell’università. All’indomani, il computer mi raggiunse per posta: magia.

Poche settimane dopo tornai a Roma per le vacanze e alla festa di capodanno c’era Chiara Valerio. Con Chiara Valerio, a quel punto della mia vita, c’eravamo scambiati forse un centinaio di lettere (perlopiù elettroniche, ma non solo) pur essendoci incontrati, in tempo reale, meno di dieci volte. Prima della mezzanotte mi propose di tradurre insieme a lei l’epistolario tra Virginia Woolf e Lytton Strachey, il geniale e nasale, rachitico biografo barbuto della regina Vittoria che lavorava a maglia e si contendeva gli amori con Maynard Keynes. Le dissi di sì, ma solo se lei avesse tradotto tutte le lettere di Virginia e io quelle di Lytton. Mi disse che però allora dovevamo farlo a turno, e in ordine: lei mi avrebbe spedito la traduzione della prima lettera di Virginia e io avrei replicato con la prima risposta di Lytton, e così via. Cominciammo a gennaio, l’anno si rivelò straordinario.

Tradurre è, pare, la forma più assoluta, più raffinata di lettura. Ma tradurre per posta è qualcosa di più, specie quando tutto il mondo si unisce in una solitudine disseminata, in un’unanime distanza – Lytton e Virginia avevano attraversato una cosa simile con l’influenza spagnola, a noialtri tocca il Covid. Scriversi, invece di scrivere, abolisce la mitologia della scrittura: non c’è ispirazione che tenga, il tempo stringe invece di dilatarsi, tre quarti dello sforzo stanno nell’attesa. Tradurre per posta è tradursi. Mettersi nel mittente intendo, dimenticarsi di leggere sé stessi nel brano da voltare in un’altra lingua, leggere invece, in tempo reale, la lingua di un altro – di un’altra.

Quando abbiamo finito di tradurci (nel)le lettere di Virginia e Lytton, e nottetempo ne ha confezionato un’edizione rosa shocking, non abbiamo potuto che continuare a scriverci per introdurlo, e così il saggio all’inizio del libro è uno scambio di lettere tra noi, Chiara e Alessandro. Ormai anche per messaggio ci scriviamo come fossimo ancora a Londra cento anni fa o a New York nel 2018. Questa che stai leggendo è, forse, l’introduzione che avrei scritto (che mi sarei scritto) se avessi tradotto il prodigioso epistolario dei sovrani di Bloomsbury da solo. Da solo però avrei fatto un libro noioso sugli anni Venti del secolo scorso, non di questo; e ci avrei messo forse vent’anni a finirlo. Con Chiara Valerio invece meno di due, così può uscire esattamente a ottant’anni dalla scomparsa di Virginia Woolf – una scomparsa, lo sappiamo, postale: l’ultima cosa che ha fatto è stata scrivere alcune lettere.

Cordialmente,

Alessandro Giammei


Chiara Valerio e Alessandro Giammei hanno tradotto e curato il libro Ti basta l’Atlantico? Lettere 1906-1931 basato sullo scambio di lettere tra Virginia Woolf e Lytton Stratchey, edito da Nottetempo

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