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Nove anni fa, nell’ottobre del 2012, per una trasmissione televisiva sono andato a Predappio per il raduno dei fascisti sulla tomba del duce. E questi qua, quel giorno lì, ricreavano un mondo che era proprio diverso dal mondo che ci viviam tutti i giorni.
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Da allora, quando vedo dei ragazzi e delle ragazze di trent’anni, o anche meno, che assumono come proprio questo aggettivo, “antifascista”, che di sé dicono: «Io sono un antifascista», ecco, a me, c’è qualcosa che non torna.
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Ettore Farioli, che ho avuto la fortuna di conoscere, lui sì, che è un antifascista. Noi, che siamo nati dopo gli anni Sessanta, per non darci troppa importanza, dovremmo chiamarci antineofascisti, secondo me.
Nove anni fa, nell’ottobre del 2012, per una trasmissione televisiva sono andato a Predappio per il raduno dei fascisti sulla tomba del duce.
Prima di partire, di quei fascisti avevo un po’ paura, e come me tutta la troupe.
Poi eravamo andati, ed eravam lì sul viale, a Predappio, era arrivata una corriera vintage, con un autista vintage che quando era arrivato aveva tirato giù il finestrino e aveva detto, forte: «A noi!», e a me era venuto da pensare: «A noi cosa?».
Dopo c’era uno, vintage, con gli stivali di pelle, il fez, le spalline e tutto che aveva detto: «Eia eia», e due o tre lì intorno avevano detto: «Alalà!». Cioè era un raduno come di quelli che vivono nel medioevo, cioè non ci vivono, lo ricreano, e questi qua, quel giorno lì, ricreavano un mondo che era proprio diverso dal mondo che ci viviam tutti i giorni, usavano anche una lingua diversa, una lingua dove i cuori erano infiammati, le autorità maschie, e infaticabili, e ardimentose, e l’esercito invitto e invincibile e insonne, le giornate fauste o gloriose, dove le teste eran calde e la sovranità piena, la volontà granitica e i sangui freddi e le folle esultanti, dove tutti i bambini si chiamavan balilla, le certezze eran supreme e i giuramenti sacri e le camicie nere, e dove lo spirito era prevalentemente di sacrificio, e tutto questo, però, tutto questo mondo surreale conviveva, lì dove eravamo, a Predappio, con l’universo nostro, quello della crisi, quello degli sconti, tre calendari del duce 6 euro, che si vedeva che era una cosa che «Dài, si fa per dire».
Arrestare una vita
Dopo poi, alla fine, quando abbiamo incontrato un signore di ottantasei anni che ci ha detto che lui era partito volontario a diciotto anni, che aveva fatto parte della guardia del duce, e che c’era il suo nome in un libro, e ci ha fatto vedere il libro, e la pagina dove c’era il suo nome, evidenziato con un evidenziatore rosa, e aveva un modo così indifeso, così ingenuo, di esporsi alla nostra telecamera che io, poi, quando ero tornato a casa e avevo trovato qualcuno in rete che si chiedeva: «Ma quei fascisti là, che si son trovati là, ma è una vergogna, ma non c’era nessuno che li arrestava?», ecco io, dopo che ero stato là, che avevo visto tutto quell’ambaradan là, avevo pensato che quel signore lì, di ottantasei anni, quella lì era stata la sua vita, e avevo pensato che arrestarlo, cosa vuoi arrestare, la sua vita? E come fai ad arrestare una vita? Una vita non la puoi mica arrestare, al massimo ci puoi convivere, e quella lì è una cosa più difficile, avevo pensato, però secondo me è più intelligente.
Patriota o antifascista
Da allora, son passati nove anni, non ho cambiato parere, e quando sento parlare dei fascisti, del pericolo fascista che ci sarebbe oggi in Italia, quando vedo dei ragazzi e delle ragazze di trent’anni, o anche meno, che assumono come proprio questo aggettivo, “antifascista”, che di sé dicono: «Io sono un antifascista», ecco, a me, c’è qualcosa che non torna.
Quando mi sono iscritto all’Anpi, al momento dell’iscrizione mi hanno chiesto di scegliere se mi definivo «patriota» o «antifascista». Io, il sostantivo “patria”, nella mia testa, lo faccio girare quasi solo in relazione a una memorabile strofa di una canzone di Pietro Gori («Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta»), e non me la sentivo di definirmi un patriota, ma facevo fatica anche a definirmi antifascista, perché pensavo a mio nonno, che è andato in montagna, con i partigiani, che ha rischiato la vita, che è stato antifascista negli anni Quaranta, quando essere antifascisti poteva costare carissimo: lui sì, che era un antifascista, ma io, quanto mi costa, a me, mettere una crocetta e dire «Sì, sono un antifascista?». Niente. Io non riesco a dirmi antifascista per rispetto degli antifascisti veri, quelli per esempio che ho conosciuto quando ho scritto un libro sui fatti di Reggio Emilia del 7 luglio del 1960.
Nel 1960, il presidente della repubblica, il democristiano Gronchi, ha dato l’incarico di formare il governo a un democristiano, Tambroni, che ha fatto un governo con tutti i ministri democristiani. Il governo ha avuto la fiducia, ma siccome la Democrazia cristiana non aveva la maggioranza assoluta, il governo ha avuto bisogno dell’appoggio esterno del Movimento sociale italiano; il Movimento sociale italiano, pochi mesi dopo la formazione del governo, aveva chiesto e ottenuto di tenere il proprio congresso a Genova, solo che a Genova, città medaglia d’oro della resistenza, erano passati appena quindici anni dalla fine della guerra, i genovesi non li volevano. I tassisti non li portavano nei posti, i camerieri gli sputavan nei piatti, i controllori, sui treni, gli dicevano: «Ma andate a Genova? Ma siete matti, ma lì vi ammazzano».
Che, vista oggi, una cosa del genere, sembra strana. Vedendo la cosa con l’ottica di oggi, viene da dare ragione al ministro dell’Interno, democristiano, Spataro, che, in seguito ai disordini che c’erano stati a piazza della Vittoria a Genova, dove la polizia le aveva prese, e forte, aveva dichiarato che il Movimento sociale italiano era un partito legalmente riconosciuto e che aveva diritto di tenere il suo congresso dove voleva, e che i disordini di Genova, fomentati dal Partito comunista, dovevano finire.
C’è da dire che, a fare il presidente onorario del congresso di Genova, i missini avevano chiamato Carlo Emanuele Basile, che era stato capo della provincia di Genova durante la Repubblica di Salò e che, nel marzo del 1944, per rispondere agli scioperi degli operai genovesi, ne aveva mandati alcuni, a sorteggio, nel campi di concentramento.
In parlamento, al ministro dell’interno risponde Sandro Pertini, l’ex partigiano che poi sarebbe diventato presidente della repubblica, e Pertini, in quel discorso, rivolto all’onorevole Migliori dice:
«Onorevole Migliori, l’ho ascoltata con molta deferenza, non solo per l’amicizia che a lei mi lega, ma per quello che ella ha detto sul suo figliolo. Mi consenta però di ricordarle, onorevole Migliori, che questo boia di Basile ha mandato mio fratello a morire in un campo di annientamento in Germania. E dovrebbe domani presiedere il congresso neofascista! Onorevole Migliori, noi dobbiamo rispettare e far rispettare il ricordo dei nostri martiri. Noi abbiamo il dovere di far sì che per colpa nostra neppure un’ombra scenda più su questo ricordo».
La strage di Reggio Emilia
I missini rinunciano al loro congresso di Genova, e il 6 luglio, a Roma, una manifestazione che celebra questo successo della sinistra viene impedita con la forza dalla polizia; per protestare contro le violenze della polizia del 6 luglio, il 7 luglio la Cgil indice lo sciopero generale.
A Reggio Emilia aderisce più del 90 per cento dei lavoratori. Per il pomeriggio del 7 luglio, alle 17, è indetta la manifestazione della Cgil che deve concludere lo sciopero.
Al mattino il prefetto dà ordine di «sciogliere con la forza qualsiasi assembramento non autorizzato».
Assembramento non autorizzato, per le leggi dell’epoca, vuol dire una riunione non autorizzata di più di tre persone.
E prima che cominci la manifestazione, sulla piazza dei teatri di Reggio Emilia, ci sono almeno 2mila persone.
E prima che cominci la manifestazione, il 7 luglio del 1960, d’un tratto, la polizia carica con idranti e gas lacrimogeni.
E subito dopo, inspiegabilmente, si mette a sparare.
E spara per quaranta minuti.
E ferisce sedici persone, e ne uccide cinque, tutti operai.
Cinque operai che non gli avevano fatto niente.
Uccisi, sulla piazza dei Teatri di Reggio Emilia, il 7 luglio del 1960.
Il figlio di uno degli operai che furono uccisi, Ettore Farioli, quando uccisero suo padre aveva due anni.
Non si ricorda niente, di suo padre. «Mi son dovuto attaccare a una fotografia», dice. «La mia infanzia è stata monca» dice. «In pratica», dice, «sono nato senza affetto, in pratica». «Queste son cose», dice Farioli, «che la scuola, le istituzioni, se ne dovrebbero far carico». Ecco, quel signore lì, Ettore Farioli, che ho avuto la fortuna di conoscere, lui sì, che è un antifascista. Noi, che siamo nati dopo gli anni Sessanta, per non darci troppa importanza, dovremmo chiamarci antineofascisti, secondo me.
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