Nando Mericoni viveva a Roma settant’anni fa. Girava sulla Harley-Davidson, indossava blue jeans e cappello da baseball, chiamava sua madre «mami» e suo padre «papi», ripeteva in continuazione l’espressione «all right».

Nando Mericoni era Un americano a Roma, nel film del 1954 di Steno, protagonista di una delle immagini più riprodotte del cinema italiano: sfido chiunque a entrare in un qualsiasi ristorante turistico a Roma e non trovarci Alberto Sordi che mangia il proverbiale piatto di maccheroni colpevoli di averlo provocato.

Nello stesso periodo in cui Sordi interpretava il trasteverino con la fissa per gli States, Renato Carosone cantava “Tu vuo’ fa’ l’americano”, ritratto musicale dello stesso fenomeno, quello del giovane italiano col sogno americano in testa e la mitologia del nuovo mondo in tasca, tra fumetti, whiskey soda e rock and roll.

Siamo cambiati così tanto da quella stagione florida di esterofilia e soft power del dopoguerra? A giudicare dagli eventi recenti che hanno sconvolto il mondo del rap, del gossip, di Instagram e delle bevande energetiche, sembrerebbe di no. Archiviato il boom economico con relative delusioni e disillusioni, sorpassato con eleganza craxiana l’edonismo reaganiano, dimenticati il grunge, Mtv, le boyband e tutte le altre iniezioni di intramontabile egemonia culturale statunitense, non potevamo certo esimerci dal dare anche noi la nostra versione all’italiana del dissing, pizza spaghetti e autotune, fenomeno squisitamente statunitense, nato nel mondo del rap afroamericano per non mandarsele a dire, tra sparatorie e rime.

Ci hanno pensato Tony Effe e Fedez a sfidarsi al singolar tenzone, dopo un’estate all’insegna del sesso e della samba per il primo, e della movida in Costa Smeralda per il secondo, genitore separato con la crisi di mezza età più sbandierata d’Italia.

Giusto pochi mesi fa, Kendrick Lamar e Drake, due rapper con una certa reputazione basata su centinaia di milioni di copie vendute e svariati riconoscimenti a livello globale, avevano intrattenuto il pubblico del genere con un duello che, per gli esperti del settore, non si fatica a definire «epocale», concluso con una canzone del primo, Not Like Us, che più che il prodotto di un bisticcio a distanza sembra un manifesto sul senso stesso della musica rap contemporanea.

Oltre alle non troppo velate accuse di pedofilia e di altre cattive condotte più o meno fondate rivolte al collega, Kendrik Lamar ha dato vita a una querelle sulla differenza tra cultural appropriation e cultural appreciation, facendone una questione filosofico-identitaria sul rap come megafono della strada, voce della comunità afroamericana, figlia delle difficoltà e del dolore, niente a che vedere con le operazioni commerciali e poco engagé della sua nemesi canadese.

Un dissing di un certo livello, visto che il brano in questione è papabile candidato ai Grammy.

E poi ci siamo noi. Noi, con la nostra inestinguibile brama di fa’ l’americano, di trasformare in una commedia diretta da Steno qualsiasi cosa provenga dagli Stati Uniti, mettendo il nostro Italian touch, la spolverata di pecorino sui maccheroni, il sugo sugli ziti, quelli che gli italoamericani del New Jersey in stile Sopranos amano tanto.

Sconvolgimento nella trap italiana

La genealogia della faida tra Fedez e Tony Effe più che complessa è piuttosto noiosa, visto che si tratta sempre degli stessi temi, l’Onore e il Rispetto ma senza Gabriel Garko e con i personal trainer che prendono il caffè con Ilary Blasi di mezzo.

Per chi si fosse perso la cronologia dell’amicizia tra i due, un rapporto che affonda le sue radici nella nascita della scena trap italiana, se così vogliamo definirla (anno di fondazione, 2016), basti pensare che, quando la Dark Polo Gang era un nome di grido e quando Fedez non era ancora un papà con il golden retriever, i due regni, Milano City e Roma Rione Monti, vivevano una Pax Augusti. Poi, come spesso ahimè succede tra i grandi e tra gli amici di Fedez in particolare, qualcosa è andato storto: i legami si sono spezzati, i featuring sono stati negati, i social si sono riempiti di frecciatine documentate con dovizia filologica dagli utenti di TikTok. E dissing fu.

A lanciare il primo vero guanto di sfida è stato Tony Effe, ospite del format Red Bull 64 Bars – dettaglio importante se consideriamo che tutto l’alterco ha come sfondo la sponsorizzazione di bevande energetiche – con la prima allusione all'ex moglie di Fedez. Poco dopo, arriva la risposta, «Scrivevi a mia moglie mentre mi abbracciavi, quelli come te io li chiamo infami».

L’infanzia difficile di un benestante è il titolo del j’accuse di Fedez, brano che ruota solo in parte attorno al tema complesso del determinismo ambientale e dell’incompatibilità tra borghesia e rap, e che verte soprattutto sul comportamento poco limpido di Tony nei confronti della ormai ex signora Ferragnez; il codice d’onore, come insegna Pietro Germi, è un affare serio.

Tony Effe non si fa attendere, e risponde dopo ventiquattro ore con una canzone dal titolo Chiara, brano impreziosito da inserti vocali provenienti niente meno che da Chiara Ferragni stessa, poi camuffati in una seconda versione censurata da accento svedese di fantozziana memoria. «Chiara dice che mi adora, non si lascia una mamma sola», dice, e poi ancora «Hai perso moglie, non hai famiglia, la prossima figlia devi chiamarla Sconfitta».

«Fate quello che volete ma lasciate in pace me ed i miei figli, grazie», dichiara lapidaria Ferragni su Instagram dopo queste quarantotto ore di celodurismo in rima, mentre l’opinione pubblica si divide tra un coro di indignazione verso l’utilizzo di bambini e della famiglia, stupore per la misoginia e il sessismo implicito ed esplicito che sta alla base della poetica di molti rapper italiani – una scoperta sensazionale, a quanto pare – e tifoseria da lotta clandestina tra galli, o polli, che dir si voglia.

Sempre là si va a parare

L’aspetto più interessante di questa baruffa in rima baciata, il Mericoni-factor che inevitabilmente si attiva tutte le volte in cui sentiamo la necessità di copiare gli americani, persino nelle cose che non ci riguardano e che affondano le radici in conflitti identitari e culturali lontani migliaia di chilometri da noi, è quel moralismo mammone all’italiana che pervade anche i testi di un dissing.

Alla fine, di tutta questa vicenda che dovrebbe trasudare machismo e swag, per dirla in gergo rap, ciò che ricorderemo è la risposta della ex moglie, nonché mamma dei bambini più instagrammati d’Italia. Il dissing all’italiana altro non è che l’ennesima occasione per parlare di madri, o di nonne – «Sono il figlio preferito di Tatiana», dice Tony, riferendosi alla madre di Fedez – e di ricordare al mondo che per quanto possiamo essere tatuati, ingioiellati, per quante bibite energetiche si possano mettere in mezzo con disinvoltura, facendo il branded content pure quando ci si azzuffa, per quanto duri e cattivoni, comunque, alla fine, la mamma è sempre la mamma, ed è là che si va a parare.

Altro che cultural appropriation, storie di ghetto, rivendicazioni e rivoluzioni: se c’è una faida, noi ci fiondiamo sul gossip, se c’è una famiglia di mezzo noi vogliamo sapere tutti i dettagli, e se c’è una mamma, l’argomento centrale diventa lei, che le piaccia o no. Del resto, lo diceva Renato Carosone nel suo straordinario dissing ante litteram verso i giovani storditi da un sogno che non era decisamente loro, «Ma i soldi pe’ Camel, chi te li dà? La borsetta di mammà».

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