«Mi saltò in mente una nuova storia, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfondo ma nel fitto della guerra civile. Mi appassionò immediatamente, e ancora mi appassiona. Mi appassiona infinitamente di più della storia primitiva». Così scriveva Beppe Fenoglio all’editore Livio Garzanti, a proposito della nuova opera a cui aveva iniziato a lavorare.

Nel marzo del 1960, “individuale” e  “romantico” non erano più termini quasi scandalosi nel parlare della Resistenza. Si poteva finalmente andare oltre il racconto come appunto "storia primitiva”, semplice testimonianza oppure orazione civile, di quella guerra partigiana che Fenoglio aveva combattuto da ragazzo.

Ora la nuova Repubblica italiana nata dall’antifascismo era adulta e si poteva fare vera letteratura della Resistenza. Fenoglio in realtà l’aveva sempre fatta ma, come vedremo, senza essere capito. Ma ora, 15 anni dopo la fine della guerra, il sentire culturale dell’Italia lo stava raggiungendo, e anche il suo isolamento dal mondo editoriale pareva non essere più aspro come un tempo, cominciavano ad arrivare attenzione e riconoscimenti. E di quella lettera all’editore resta indelebile la triplice ripetizione: “mi appassionò”, “mi appassiona”, “mi appassiona infinitamente”.

Una questione privata

Quella passione è rimasta impigliata tra le pagine di Una questione privata come la nebbia tra i castagni e i faggi delle Langhe, e così avvolge di soppiatto i lettori. Ad Alba, i liceali in visita al Centro studi Beppe Fenoglio ne declamano a memoria pagine intere. Sulla sua tomba vengono deposti biglietti, fiori e naturalmente le amate, assassine sigarette. Lettori di ogni età vengono a ripercorrere le tracce di Milton nei percorsi guidati sulle colline, e al ritrovarli scoppiano a piangere abbracciandosi tra loro.

Perché lo fanno? Cosa c’è in questo breve romanzo da provocare questo misto di nostalgia, desiderio, rimpianto, entusiasmo, commozione? Cosa rende Una questione privata un libro così vicino e inafferrabile, così “misterioso e assurdo”, come lo definì Italo Calvino nella prefazione alla riedizione del proprio Il sentiero dei nidi di ragno, dove addirittura scrisse che «è al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio»?

Incompreso

Chissà Fenoglio cosa ne penserebbe. Non aveva un’altissima opinione della propria vocazione letteraria: «Sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere, ma dovrò considerare le mie fatiche non più dell’appagamento di un vizio».

Certo non lo aiutarono i tanti rifiuti editoriali, primo tra tutti quello di Elio Vittorini, che nel 1950 decise di non pubblicare presso Einaudi quel breve capolavoro che è la novella La paga del sabato. Un rifiuto che diede il via al tortuoso percorso editoriale che le opere di Fenoglio ebbero o, purtroppo spesso, non ebbero finché fu in vita.

Del resto l’incomprensione del mondo letterario nei suoi confronti – con l’unica eccezione, appunto, di Calvino – era da lui ricambiata; per indole e postura esistenziale. Nei salotti letterari Fenoglio si trovò sempre ben poco a suo agio. «Un brocco brado», si definiva. Un cavallo di quart’ordine che dà calci a chi si avvicina troppo, macilento e lento, ma che va solo dove garba a lui.

Fuori tempo

Ma il suo disagio non era limitato al mondo della letteratura. C’erano in Fenoglio una fatica, un’insofferenza, uno sgomento di fronte all’enormità delle esperienze fatte dalla sua generazione.

Questa incapacità di adattarsi alle quotidiane bugie minime del tempo di pace dopo l’atroce ma assoluta verità della guerra (oggi la chiameremmo sindrome post traumatica) la narrò con aspra compassione proprio ne La paga del sabato. Non a caso Vittorini lo rifiutò.

L’Italia stava faticosamente ricostruendo la propria dignità dopo l’abominio del fascismo, e la Resistenza era la zattera morale con cui gli italiani potevano trarsi in salvo da quel naufragio etico.

Alla letteratura si chiedeva di partecipare alla costruzione della nuova repubblica antifascista. Non deve stupire quindi che nel gennaio del 1950 Vittorini non capisse lo sguardo di Fenoglio, che già sapeva vedere la Resistenza come un vasto intreccio di ambivalenze e contraddizioni umane. Era troppo presto. C’era ancora bisogno, e si capisce bene, di enunciazioni nette. E così La paga del sabato fu pubblicato nella sua interezza solo nel 1969, sei anni dopo la sua morte.

Durante e dopo la guerra

E forse proprio ne La paga del sabato si trova la chiave dello struggimento che Una questione privata suscita in tanti lettori. Le due opere segnano inizio e fine dell’attività letteraria di Fenoglio ma sono, quanto a fabula, invertite.

La paga del sabato racconta il dopo, il ritorno alla vita quotidiana dopo la guerra partigiana e l’incapacità del reduce di riadattarsi. Una questione privata invece torna indietro al “mentre” emotivo della Resistenza, ai pochi folli giorni in cui il giovanissimo partigiano Milton vaga sconclusionato e furibondo nel bel mezzo della guerra, anzi  “nel fitto”: la guerra come bosco ben più spietato e oscuro delle faggete.

Una stagione

A leggere questi due estremi della sua produzione letteraria si direbbe che Fenoglio, nella sua troppo breve vita, abbia compiuto un cerchio perfetto intorno alla propria materia narrativa: la Resistenza, esperienza identitaria della sua generazione.

E infatti Calvino, sempre nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, così ancora scrisse di Una questione privata: «E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo aspettato. (…) Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso. E solo ora grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta. Solo ora siamo certi che è veramente esistita».

La ricerca di senso

Ma sospetto che ci sia una dimensione ulteriore, in quel senso di cui parla Calvino. Forse la distanza dai circoli letterari e dai loro consensi di gruppo preservò Fenoglio dalla pur comprensibile richiesta che veniva agli scrittori del dopoguerra di scrivere in modo utile.

Il suo isolamento forse gli permise di andare oltre le contingenze storiche, sia da quelle di cui aveva esperienza sia da quelle in cui operava, e di sottrarsi a quella richiesta di senso esplicito, civile e politico, per sua stessa natura legato alle circostanze, limitato. E così, misteriosamente, con la sua opera disegnò ampi cerchi concentrici intorno a quel ben più abissale perno della condizione umana, non solo delle esperienze estreme come la guerra: la ricerca di senso.

Il sesso dei partigiani

Ciò che infatti il protagonista di La paga del sabato, Ettore, rimpiange della guerra sono i suoi assoluti, così perfetti nella loro semplicità benché crudeli. Nella vita da partigiano aveva trovato una costruzione di senso e una quasi inconfessabile libertà che ora tornato alla vita quotidiana non ha più.

E anche l’adolescenziale compulsione di Milton in Una questione privata è assurdamente fuori scala rispetto a ciò che ha intorno: un pianeta in fiamme, che peraltro lui stesso alimenta buttando sconsideratamente sulla pira onnivora della guerra vite altrui e forse anche la propria.

La domanda da cui Milton è agitato, e che lo obbliga alla sua corsa privatissima in mezzo alla pubblica tragedia, è di una banalità quasi comica: l’amata Flavia e l’amico e compagno in armi Giorgio hanno fatto sesso insieme o no?

In realtà è una domanda meno futile di quanto sembri. Il sesso è l’altro dei due grandi assoluti, con la morte; e la sua rivelazione è bruciante necessità per chi sta cercando il senso in un mondo insensato. «Come fanno a far l’amore, i partigiani?», chiedono i fascisti alle cameriere giù in valle, e “far l’amore” sta per tutto ciò che dà senso alla vita.

Non a caso le pagine che descrivono la relazione carnale tra Ettore e la sua donna ne La Paga del sabato, moderne e spregiudicate, sono le sole in cui Fenoglio conceda al suo protagonista d’intravedere di nuovo, o ancora, il senso della vita.

L’emozione della ricerca

Non sapremo mai se Milton lo trovi o no, questo senso. Al lettore il compito di accompagnarlo nella sua corsa attraverso fango, nebbia, fucilazioni di ragazzini e le note di Over the Rainbow. Ma non importa.

La commozione che questo libro suscita ancora oggi in tanti lettori non è data da cosa Milton trovi, ma dalla sua ricerca. In essa siamo tutti suoi fratelli e sorelle. Anche noi, che pure non siamo stati partigiani e viviamo tanti anni dopo, arranchiamo proprio come lui alla cieca nel fango e nella nebbia della vita, commettendo errori, alcuni stupidi e altri fatali, ma pur sempre cercando. È lì che quel “brocco brado” di Fenoglio ci indica il senso: nel nostro reciproco riconoscerci di poveri umani accomunati dall’ostinato ricercare.


Questo articolo è tratto dalla postfazione della edizione tedesca di Una questione privata: Eine Privatsache, traduzione di Heinz Riedt, Wagenbach Verlag. © Francesca Melandri – 2022

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