Nato negli Stati Uniti, da padre italiano e madre ebrea di origini francesi e portoghesi, il poeta ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura americana e non solo
- Nato nel 1919 a Yonkers, nello Stato di New York, Lawrence Ferlinghetti era figlio di un bresciano emigrato negli Stati Uniti e di una madre ebrea sefardita di origini francesi e portoghesi. Affidato alla zia, il futuro poeta visse i suoi primi cinque anni a Strasburgo per poi spostarsi negli Stati Uniti.
- Spostatosi a San Franciso, Ferlinghetti divenne uno dei simboli della Beat Generation e lasciò un segno così profondo nella città che il giorno del suo centesimo compleanno gli venne dedicato il “Ferglinghetti Day”.
- A parte i quadri, a parte il romanzo Her (Lei) apparso nel 1960 e ispirato a Nadja di André Breton (quanti francesi, nei versi di questo studente della Sorbona!), il vero lascito di Ferlinghetti risiede in una poesia che è stata via via definita politica, teatrale, epica
Avrò avuto 16 anni, verso l’inizio degli anni Settanta, quando nel mio liceo venne a parlare Fernanda Pivano. Fu quello il mio primo incontro con i poeti della Beat Generation, durante il quale sentii pronunciare per la prima volta il nome di Lawrence Ferlinghetti. Ricordo la reazione d’insofferenza mia e dei miei amici, un senso di alterigia, di orgoglio ferito, di fastidio.
Altri erano allora i nostri modelli, e non potevamo certo tollerare l’ingenuità degli ultimi arrivati. Lo ammetto: sono partito da una profonda diffidenza verso le nuove voci della poesia statunitense, diffidenza che solo col tempo si è andata via via trasformando in simpatia.
Beat Generation
Eppure, quattro anni dopo, girando per San Francisco, non potei fare a meno di recarmi in pellegrinaggio presso la leggendaria libreria che Ferlinghetti aveva aperto nel 1953 chiamandola City Lights Books, in omaggio al Chaplin di Luci della città. Poco dopo nacque l'omonima casa editrice, specializzata in poesia, la cui più famosa pubblicazione fu la raccolta di versi Urlo (Howl), di Allen Ginsberg.
Uscito nel 1956, il libro fu ben presto confiscato, mentre Ferlinghetti, condotto in prigione, veniva condannato per oscenità – questo per dare un’idea del costume e della cultura Usa del periodo. Confesso che, aggirandomi fra le stanze di quel sacrario, continuavo a provare un senso di profonda titubanza, ma allo stesso tempo iniziavo a capire l’entusiasmo che aveva trascinato tanti autori nell’avventura della giovane poesia.
Nelle avventure, anzi, visto che, a ben vedere, le correnti furono almeno due, la Beat Generation innestandosi sul cosiddetto San Francisco Renaissance (no, nulla a che vedere con l’attuale, mirabile Rinascimento Arabo). A capo di questo movimento stava Kenneth Rexroth, legato a Ezra Pound e a William Carlos Williams. Fu appunto lui, già influenzato dal jazz e da certe pratiche tradizionali giapponesi come l’haiku, che convinse Ferlinghetti a trasferirsi dalla Francia a San Francisco.
Un melomane
Ma non anticipiamo. Voglio aggiungere infatti che ritrovai alcuni rappresentanti dei due movimenti al Festival di Castelporziano del giugno 1979, sulla stessa spiaggia dove, quattro anni prima, era stato ucciso Pasolini. Tra tutti, ricordo bene proprio Allen Ginsberg, autentico incantatore di serpenti.
Successe infatti che il pubblico invase il palcoscenico, mentre il palco crollò. Ebbene, in mezzo al caos sprigionato dalla folla, il poeta americano se ne uscì intonando, su una specie di organetto, una nenia orientale che, come per miracolo, calmò tutti gli animi, salvando la situazione.
Anche sul misticismo zen, però, torneremo fra poco. Un ultimo cenno lo devo comunque a Gregory Corso.
Inutile soffermarmi sulle sue ubriacature, tanto frequenti quanto le sue richieste di denaro. Piuttosto, ebbi il piacere di fare con lui un bel viaggio in Sicilia, scoprendo un uomo che sapeva anche essere allegro, e una scrittura tutt’altro che sprovveduta. Basti dire il mio stupore nel vedere che conosceva, e in maniera davvero approfondita, l’opera lirica e non solo italiana, rivelandosi un ammiratore del Franco cacciatore di Carl Maria von Weber. Magia, Boemia, Seicento, pallottole magiche: tra droghe e alcol, tutto mi sarei aspettato meno che ritrovarmi davanti a un melomane! L’aneddoto è significativo, perché mi capitò qualcosa di analogo quando mi occupai più specificamente di Ferlinghetti, a cui è finalmente venuto il momento di dedicarci.
Vita di Ferlinghetti
Che vita formidabile! Nato nel 1919 a Yonkers, nello Stato di New York, era figlio di un bresciano emigrato negli Stati Uniti (che morì sei mesi prima della sua nascita) e di una madre ebrea sefardita di origini francesi e portoghesi (che dopo il parto venne ricoverata in manicomio). Affidato alla zia, il futuro poeta visse i suoi primi cinque anni a Strasburgo, e quindi conobbe come prima lingua il francese, che più tardi insegnerà per sbarcare il lunario.
Quando la zia fu assunta come governante a New York, i suoi datori di lavoro adottarono il piccolo, consentendogli poi di studiare. La guerra, tuttavia, incalza, e Ferlinghetti si arruola in marina. Secondo Pivano, lo sbarco in Normandia rappresentò uno fra i tre fatti salienti della sua esistenza – la studiosa individua gli altri due nella frequentazione del Greenwich Village a New York e nella traduzione di Jacques Prévert (non per niente ci fu chi vide in lui “il Prévert d’America”).
Dopo la guerra, ottenne un diploma alla Columbia University e un dottorato alla Sorbona di Parigi, dove, come si è detto, incontrò quel Rexroth che lo convinse a lasciare l’Europa per San Francisco. Capito che bagaglio di esperienze e letture? Decisamente, al liceo ci sbagliammo, prendendo questo beat per un naïf, uno dei tanti velleitari che popolano le terre della letteratura…
Sposatosi nel 1951, fondò City Lights Books e pubblicò tra gli altri anche Jack Kerouac, ospitato verso il 1960 nel suo buen ritiro di Big Sur, sulla splendida costa a nord di San Francisco. Già da alcuni anni, la città stava vivendo un’epoca di grande fioritura (il San Francisco Renaissance di cui si è detto). A favorirla, tra l’altro, fu l’importante fenomeno delle letture pubbliche, come quella organizzata da Rexroth nell’ottobre 1955, o il Poetry Reading dell’8 giugno 1868, il giorno in cui fu sepolto Robert Kennedy.
Siamo nel cuore della controcultura anni Sessanta, anarco-pacifista e libertaria, pervasa da dottrine buddhiste e culminata nella stagione hippie. Ma anche in seguito, la fama degli scrittori beat non si spense. Non per nulla, come è stato osservato, Ginsberg, Kerouac, Corso, insieme a Gary Snyder e Michael McClure arrivarono a influenzare il mondo musicale del rock. Quanto a Ferlinghetti, San Francisco celebrò ufficialmente il giorno del suo centesimo compleanno, proclamando il 24 marzo “Lawrence Ferlinghetti Day”. Aggiungiamo che negli ultimi tempi il poeta-libraio-editore (senza dimenticare il suo lavoro pittorico) venne spesso in Italia, si impegnò a impararne la lingua e chiese di essere chiamato “Lorenzo”, nome che volle dare al suo ultimogenito. Lo si vede nelle poesie Scene italiane (Sotterranei, 1995), interamente dedicate al nostro paese. Molti, del resto, i suoi libri tradotti da noi, e presso numerosi editori.
Le opere
Ma è venuto il momento di parlare della sua opera. A parte i quadri, a parte il romanzo Her (Lei) apparso nel 1960 e ispirato a Nadja di André Breton (quanti francesi, nei versi di questo studente della Sorbona!), il vero lascito di Ferlinghetti risiede in una poesia che è stata via via definita politica, teatrale, epica.
Se resta inevitabile il riferimento al grande bardo americano Walt Whitman, non meno attive figurano le influenze di molta poesia europea.
Va insomma notata l’ampiezza del registro espressivo, capace di andare dalla denuncia civile fino a tonalità spiritualistiche, orientali, ovviamente, ma anche aperte al recupero di certo cristianesimo primitivo, come ha spiegato bene Roberto Sanesi.
Personalmente, apprezzo molto la semplicità delle ultime raccolte, quando l'andatura dei versi si distende ariosa, pacata, fraterna, senza che i riferimenti letterari ne offuschino o appesantiscano lo sguardo.
Per questo vorrei concludere con una poesia, da Strade sterrate per posti sperduti (Minimun fax), che è insieme un omaggio a un altro centenario da festeggiare, quello del padre Dante: «E nel mezzo del cammino / di mia vita / mi imbattei in me stesso // in una selva oscura / e ho riso + pianto + vissuto + sono morto // e non ho capito / Niente».
© Riproduzione riservata
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