Apre la kermesse veneziana un film bellico sui generis, la storia dell’eroico Salvatore Bruno Todaro. Ha provocato qualche polemica, ma per lo sceneggiatore Veronesi parla del «valore del soccorso» in mare
I sommergibili cinematografici che ricordo con vera passione sono appena tre. C’è il sottomarino giallo dei Beatles, quello che ha tolto dal cono d’ombra della composizione il batterista Ringo Starr e ha dato il titolo a uno dei film di animazione più indimenticabili di sempre.
C’è quello nipponico, esilarante, di Steven Spielberg, che solleva l’ignara bagnante nuda all’inizio di 1941, Allarme a Hollywood. E c’è quello dipinto di rosa, insuperabile per comicità, di Operazione sottoveste (Operation Petticoat), che nel 1959 il grande Blake Edwards affidava agli estri burloni di Cary Grant e Tony Curtis.
Sono tre film di scarsissimo ardore militarista. Confesso perciò di non trovarmi esattamente nella mia zona di comfort imbarcandomi per due ore sul sommergibile Cappellini di Comandante, il film di Edoardo De Angelis che apre Venezia 80, chiamato in corsa a rimpiazzare Challengers di Luca Guagagnino. Il film di Guadagnino ha dato forfait per via dello sciopero degli attori di Hollywood, e al posto di Zendaya sul primo red carpet sfila una gloria nazionale che è l’asso pigliatutto del nostro cinema, cioè Pierfrancesco Favino.
Per i cronisti è più golosa la passerella di politici come Matteo Salvini. Il romanzo che gli sceneggiatori De Angelis e Sandro Veronesi hanno tratto dal film è già in libreria con Bompiani, per chi volesse erudirsi in anticipo sulla figura di Salvatore Bruno Todaro, che tra il 16 e il 19 ottobre del 1940 fu protagonista di un gesto destinato a passare alla storia.
Una bella storia
Partito dal porto di La Spezia il 29 settembre per una missione segreta sull’Atlantico, nel buio della notte un mercantile che batte bandiera belga e viaggia a luci spente, il Kabalo, apre il fuoco contro il Cappellini. Viene colpito e affondato, Todaro fornisce di viveri la scialuppa con 26 superstiti a bordo e la traina, ma il cavo si spezza. È allora che compie una scelta che potrebbe costare la vita a lui e ai suoi uomini, e che infrange tutte le regole militari.
Accogliere a bordo i naufraghi e trasportarli al porto di Santa Maria delle Azzorre, a 300 miglia di distanza, significa navigare in emersione per tre giorni e tre notti, esposti al fuoco nemico. «È quello che si è sempre fatto sul mare, e coloro che non lo fanno saranno maledetti», scriverà il comandante alla moglie. E al «siamo in guerra» del suo aiutante di bordo Marcon (Massimiliano Rossi, nel film), che vorrebbe farlo desistere, replica: «Siamo ancora uomini però».
È una bella storia, che De Angelis e Veronesi hanno condito di umanità attingendo alle lettere di Todaro alla moglie Rina. Nel film la vediamo solo all’inizio, mentre coccola suo marito rubando l’abbigliamento alla Charlotte Rampling de Il portiere di notte, seno nudo e berretto militare, abbigliamento quantomeno improbabile per la consorte di un ufficiale.
Polemiche
Prima dell’inconsueto look in vasca da bagno, i medici hanno imprigionato il torace di Todaro, invalidato da un incidente, in un feroce corsetto di cinghie metalliche. «Fa male? Il fascismo è dolore», dice il luminare. È quel tipo di battute che hanno autorizzato molte voci a levarsi contro un’apertura della Mostra del Lido di stampo sovranista, ossequiente al sentire dei nostri governanti. L’altra battuta contestata è quella che pronuncia Favino-Todaro dopo lo sbarco dei naufraghi a terra. Il capitano belga confessa finalmente che il mercantile trasportava pezzi di ricambio per gli aerei inglesi, e che al suo posto avrebbe lasciato quei ventisei uomini in mare. «Perché ci avete salvati?» «Perché siamo italiani». È scontato che ci si accapiglierà a lungo sulla scelta veneziana. Il film andrà in sala con 01 Distribution il 1 novembre ed è costato 15 milioni. Ma è altrettanto scontato che il personaggio in questione era una gran brava persona e che l’appello alle leggi del mare vale anche per tutti i salvataggi di questi nostri tempi di pace (pace si fa per dire). Tant’è che un endorsement al film è arrivato anche da Cecilia Strada, che sovranista non si può definire.
I film bellici, ripeto, non sono la mia cup of tea. Di rado lo sono per le esponenti del mio sesso. Non ho palpitato nemmeno per il mitico Caccia a Ottobre rosso e per Kursk di Thomas Vintenberg, che è appena uscito in sala da noi e che pure è un’accorata denuncia della barbarie di tutte le guerre.
Questo però è un film bellico sui generis, molto teatrale e per niente d’azione. C’è tanto eroismo, in compenso. Il motorista Vincenzo Stumpo, corallaro di Torre del Greco, sacrifica la vita per liberare il sottomarino impigliato nel cavo di una mina. Al mitragliere che ha avuto una gamba squarciata abbattendo un aereo inglese Todaro dice: «Non posso darti una medaglia, ma adesso potrai darmi del tu». L’enfasi è tanta e abbondantemente diffusa, anche perché legata a un linguaggio sepolto nella nostra preistoria.
Parlando del proprio equipaggio e della scelta difficile che ha condiviso con lui Todaro annota: «È sacrificio, spingerli al limite dell’umana sopportazione per salvare degli estranei».
Gli stereotipi incombono. Quando Giggino il cambusiere sfodera il mandolino per intonare ‘O surdato ‘nnammurato ti viene il sospetto che si sia oltrepassata la soglia. Ma ci sono dettagli diversamente godibili.
Divisi con gli ospiti, i viveri scarseggiano. E gli italiani scoprono le virtù delle sconosciute patate fritte, suggerite di belgi che le venerano come suprema prelibatezza nazionale.
Non è male nemmeno l’idea di Un’ora sola ti vorrei, la canzonetta strappacuore intonata a passo di marcia. Non è un anacronismo, attenzione: molto prima di Giorgia, l’aveva incisa Nuccia Natali con l’orchestra di Pippo Barzizza nel 1938.
Favino dialettale
Da quello spericolato acrobata dei dialetti e delle immersioni empatiche qual è, Pierfrancesco Favino esibisce un accento veneto praticamente perfetto. E’ il rifugio e la consolazione del capitano. Parlare dialetto stretto, e volentieri sboccato, con il suo conterraneo Marcon, in privato, lo fa «sentire a casa». E dialettale è la sua battuta migliore in assoluto, nel momento cruciale, con i naufraghi in mare. «I nazisti li lasciano affondare, comandante, noi cosa facciamo?». L’ordine è secco: “«‘I tiremo su!».
Era nato a Messina, in realtà, ma si era affezionato al triestino in servizio. Non c’è, nel film, l’attacco che gli venne in seguito rivolto dal comandante in capo dei sommergibilisti tedeschi, l’ammiraglio Karl Donitz. «Questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il Don Chisciotte del mare». La risposta accreditata da molte fonti, e mai smentita, è rimasta celebre nella storia della Marina: «Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà alle spalle».
Usando lo scambio magari De Angelis e Veronesi si sarebbero guadagnati simpatie più trasversali. Né il film né il libro comunque sarebbero esistiti se nel 2018 l’ammiraglio Giovanni Pettorino non avesse usato la vicenda come monito durante le celebrazioni dei 123 anni della Guardia Costiera.
La replica
E Veronesi, fuori dagli incontri stampa ufficiali, così, parlando con me, replica alle polemiche. «Devo dirti la verità: per me il momento più emozionante non è il “perché siamo italiani” ma una battuta che c’è stata per forza. È quando il comandante inglese che sta bombardando dice “cessate il fuoco”. È stato informato che sta passando qualcuno con naufraghi a bordo.
La guerra riprenderà dopo. In quel momento si crea una bolla di pace. Questo valore, se lo condividi, riesce addirittura a vincere sulla guerra. Chiediamoci, in tempo di pace, quanto questo valore, il valore del soccorso, debba essere difeso. Poi valutate voi se questo è un tempo nel quale c’è o no bisogno di un esempio del genere. Secondo noi, ce n’è bisogno».
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