- Futura, il film di Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e Francesco Munzi in programmazione nelle sale, è un lungo e paziente esercizio di ascolto, intorno alle prefigurazioni del futuro di chi oggi ha fra i 15 e i 25 anni, circa.
- Il futuro è un tabù perché non c’è più, per come eravamo abituati a pensarlo: non è la continuazione del presente – anzi, è stata Greta Thunberg a ricordarci che non deve esserlo – non è scommettere sui titoli di studio perché questi non garantiscono mestieri.
- Ma non nominare e non pensare il futuro è un rischio, il film è stato certo anche una palestra che dovrebbe avvenire ogni giorno in classe, chiedersi che mondo si desidera e cosa si è disposti a fare per questo.
Futura, il film di Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e Francesco Munzi in programmazione nelle sale, è un lungo e paziente esercizio di ascolto, intorno alle prefigurazioni del futuro di chi oggi ha fra i 15 e i 25 anni, circa. È un lungo esercizio perché è lunga e larga l’Italia, dipendentemente da dove nasci hai opportunità diverse, immaginari radicalmente differenti. Paziente perché significa scontrarsi con mille silenzi, dubbi, titubanze, il futuro è il tabù di oggi, come forse lo era il sesso ai tempi di Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini.
Verrà in mente a molti il confronto con quel viaggio in Italia – anche questo lo è, attraverso la voce dei giovani – ma il metodo è molto diverso: Futura non è un film a episodi, è un film collettivo, quasi anti autoriale perché i due registi e la regista si mettono al servizio di quelle voci, non commentano, non sottolineano ma fanno domande, ascoltano, rilanciano. Il racconto è sempre in prima persona, non c’è tesi, non c’è denuncia.
Futura andava fatto, così abbiamo pensato insieme all’inizio, quando a fine 2019 si è progettato il film, perché quelle voci non ci sono, in televisione, alla radio, sui giornali, al cinema o come peso politico nelle vicende del paese. Ma non ci sono neanche a scuola o all’università, dove in genere c’è un insegnante che parla e decine di giovani che ascoltano, e forse nemmeno a casa, dove gli spazi di parola condivisi sono rarefatti. Vedrete, sarete spiazzati da questo esercizio di ascolto, perché non ci siamo abituati, ma anche perché sentiamo discorsi che non avremmo immaginato, nel bene e nel male.
Il tabù
Il futuro è un tabù perché non c’è più, per come eravamo abituati a pensarlo: non è la continuazione del presente – anzi, è stata Greta Thunberg a ricordarci che non deve esserlo – non è scommettere sui titoli di studio perché questi non garantiscono mestieri, non è tutto quello che vogliamo perché quel tutto è diventato nel frattempo troppo, non è un puro esercizio di calcolo perché ci siamo scoperti molto fragili e in balia degli eventi. Di più, ragazze e ragazzi in centinaia di migliaia sono scesi in piazza per una preoccupazione ancora più radicale, che il futuro rischiamo proprio di perderlo, non solo di non conoscerlo, come in realtà è sempre stato.
Ma non nominare e non pensare il futuro è un rischio, il film è stato certo anche una palestra che dovrebbe avvenire ogni giorno in classe, chiedersi che mondo si desidera e cosa si è disposti a fare per questo. Perché il rischio è quello di subire gli eventi, di non autodeterminarsi, di ritrovarsi stanchi e alienati come molti adulti, complici nolenti di una situazione che non corrisponde al sogno di nessuno, o meglio, che corrisponde al sogno di pochissimi, ricchi e potenti. In alcune conversazioni del film si avverte quel timore, che è il rischio di ogni vita: tradire la propria adolescenza o la propria infanzia, quello spirito inventivo, veloce, insofferente rispetto ai conformismi e alle regole, alle ingiustizie e alle disparità, aperto all’avventura.
Sia chiaro, il film quasi lascia un senso di nostalgia della rivoluzione, perché le parole che si ascoltano non grondano di rabbia, conflitto, rivendicazioni per i diritti negati, eppure l’Italia è l’unico paese in Europa dove la disoccupazione giovanile da anni vale tre volte quella adulta, dove lo status sociale dei genitori si trasmette ai figli rendendoli diseguali alla nascita, ecc. Ma i ragazzi e le ragazze di oggi hanno un’onestà intellettuale disarmante, guardano in faccia la catastrofe e la chiamano per nome, non fingono di sapere quello che non sanno, non inneggiano a rivolte che non credono di poter sostenere, non nominano nemici per lanciare battaglie, non hanno ideologie che forniscano spiegazioni univoche e slogan di piazza.
Chi frequenta le manifestazioni dei Fridays for future sa che ogni cartello è diverso dall’altro, è fatto a mano, su cartone riciclato, è colorato, ed è di solito in inglese perché parla al mondo, non al proprio gruppo.
Il linguaggio della politica
Questa fatica a esprimere una parte volitiva e collettiva, di progetto, che il film mostra, è probabilmente l’esito dell’eclisse della politica dal loro orizzonte. In passato è stata la politica a dare linguaggio, principi e immaginari al cambiamento sociale, oggi è più difficile capire come possa avvenire una “socializzazione al cambiamento”, cioè apprendere la grammatica di come si possa agire sulla realtà. Forse sono il volontariato e l’attivismo a regalare ancora dei “noi” attraenti, perché il rischio è proprio quello di una perdita non solo del futuro ma anche del “noi”.
In fondo i ragazzi e le ragazze di oggi sono cresciuti – senza averlo scelto – in un sistema di mercato, confinati nel solo ruolo di consumatori almeno fino alla maggiore età, coltivati nei propri narcisismi dai social network, allenati alla competizione persino dentro il percorso di istruzione, quindi deprivati di un noi. Nonostante questo, rifiutano il darwinismo sociale che implica crescere in quel modo, hanno un solo vero terrore, la solitudine, non l’antagonismo sociale.
In Futura ci sono spesso lunghi primi piani silenziosi, sorrisi un po’ imbarazzati, di chi quasi si vergogna di non sapere cosa dire, di sé e del proprio futuro: c’è chi si butta subito nel sogno del calciatore o nel rifugio del poliziotto o della moglie/madre, ma più spesso i futuri personali sono sospesi, mancano lingua e immaginari. Bisognerebbe farlo ovunque questo esercizio, “proseguire” il film in tutti i contesti formativi abitati da ragazzi e ragazze, per apprendere quella lingua e aprire quegli immaginari, perché quando il futuro non è scritto e non è sotto controllo, lo si può solo desiderare, non calcolare. Ma questo esercizio richiede la lingua del sogno, l’abitudine a guardare il mondo attuale non come ineluttabile ma solo come una delle opzioni possibili, la pratica quotidiana del cambiamento, insomma cose che non fanno parte delle routine formative dei luoghi di educazione e istruzione.
Non a caso uno dei momenti più luminosi del film è quando due ragazzi – di origine straniera, forse non è un caso – si confrontano sui pro e i contro del sogno di un mondo senza soldi. “Come sarebbe il mondo se...”, quante insegnanti iniziano così la lezione?
Il risarcimento del passato
C’è un altro risarcimento a questa generazione, che Futura tenta di compiere, è quello del passato. Gli studenti e le studentesse che oggi frequentano la scuola Diaz di Genova non sanno cosa è successo 20 anni fa, o meglio ne hanno sentito parlare ma nessun adulto ha raccontato loro del massacro di giovani come loro da parte della polizia, in quelle aule, nel corso del G8 del 2001.
Il film monta a quel punto i materiali d’archivio per mostrare cosa è avvenuto: nell’accostamento con quelle immagini tragiche le parole di ragazzi e ragazze stridono ancora di più, quando non sai cosa è successo finisci per dire che non bisogna mai esagerare, ma stare nel proprio perimetro.
Ecco, se qualcuno avverte la nostalgia della rivoluzione ne ha qui la chiave. Prova a minacciare di estinzione una generazione, privala del linguaggio dei sogni allenandola solo all’incubo, regala un presente confortevole ma in cui non cambia nulla, alimenta la favola che questo è il paese più bello del mondo nascondendo cosa non va, racconta solo un passato lontano per cui non siano mai imputabili le colpe del presente, depaupera la scuola e chiudila per prima quando si tratta di rinunciare a qualcosa, e avrai questo risultato.
Eppure, nel tono garbato e gentile proprio di questa generazione, vi sentirete dire che da questo paese si può solo scappare, che qui non c’è futuro, che la storia dei padri non è la storia dei figli, che non si vede l’ora di lasciare la famiglia, che lavorare solo per guadagnare non è una bella fine, che gli adulti hanno paura dei giovani perché sanno che sono loro quelli più adatti a sopravvivere e a reggere l’urto del cambiamento e così via. Chissà se ancora una volta saremo delusi perché non ci dicono quello che vorremmo sentire, o prenderemo atto di come ne esce l’Italia.
Stefano Laffi ha collaborato al soggetto e alla realizzazione del film
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