- The Tragedy of Macbeth, riscritta, diretta e prodotta con la consorte Frances McDormand da Joel Coen, per la prima volta dopo trentasette anni in simbiosi senza il fratello Ethan, nei paesi anglosassoni è uscito in sala, da noi sarà dal 14 gennaio su Apple Tv+.
- Distanze e affinità tra le infinite, trenta e più, trasposizioni del Macbeth per il cinema e la tv aiutano ad assaporare meglio l’operazione di Joel Coen.
- La riscrittura di Coen modernizza i dialoghi e, soprattutto, la recitazione. Tolta l’enfasi, tolta la regalità degli addobbi, sbiadisce la connotazione di classe. I Macbeth sognano e delinquono come i piccolo-borghesi di oggi. Ma la filologia è salva, e l’invenzione visiva conquista nuovi traguardi.
«La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Non è pietà, è cinismo. Il celeberrimo compianto funebre di Macbeth per la moglie defunta ha la stessa distratta disumanità del sicario di Fargo mentre tritura i resti della povera signora Lundegaard nella scippatrice.
È una delle mille, radicali sorprese che riserva The Tragedy of Macbeth, riscritta, diretta e prodotta con la consorte Frances McDormand da Joel Coen, per la prima volta dopo trentasette anni in simbiosi senza il fratello Ethan. Nei paesi anglosassoni è uscito in sala, da noi purtroppo no. Sarà dal 14 gennaio su Apple Tv+.
Scenario onirico
È una rilettura estrema, anche se usa, come Polanski quarant’anni fa, il titolo shakespeariano originale. È “based on”, basata sulla tragedia classica. Ma se la stilizzi con un bianco e nero senza tempo e scegli una coppia mista di mezza età come Denzel Washington e Frances McDormand cambia la prospettiva.
Il potere è l’ultimo piacere che la vita può ancora offrire a due ultrasessantenni. Macbeth è afroamericano, come il suo antagonista Macduff (Corey Hawkins) e i suoi familiari. Magari è una resa al nuovo codice inclusivo dell’Academy e alla quotizzazione per le minoranze, ma è irrilevante. Conta quello che “fa” Denzel, col suo bell’accento trasgressivamente americano che suonerebbe eretico all’Old Vic. È già candidato come miglior attore ai Golden globes e ai Chritic’s choice awards. Di Oscar ne ha già vinti due, ma chissà.
Un Coen alle prese col Bardo sembra un salto nel vuoto. Ma il ragionare sulle tenebre della natura umana è la patologia eccellente del loro cinema. Questo Macbeth espressionista, che attinge a Dreyer e Murnau, potrebbe essere il prequel di The Man Who Wasn’ There (L’uomo che non c’era), col suo bianco e nero che prosciugava del pari il contesto.
Le conversazioni coniugali che pianificano il regicidio, senza ombra di enfasi teatrale, potrebbero essere quelle di due anziani borghesi vicini di pianerottolo. Ordinaria cronaca nera. La serafica Ladykiller dei Coen non è così lontana dalla Lady Macbeth di McDormand, prima che la spirale ossessiva del crimine trasformi il marito in serial killer. «Blood will have blood».
Tutto è innaturale: l’illuminazione onirica del direttore della fotografia Bruno Delbonnel che squarcia le scenografie di Stefan Dechant rubate direttamente a De Chirico è da quattro passi nel delirio. Di naturalistico c’è solo la banalità del male, che non è una merce a scadenza. Quale coppietta di anziani frustrati senza eredi rinuncerebbe a un’insperata promozione di status a portata di mano?
Le trasposizioni
Premettendo che le/gli appassionati di moda si riempirebbero volentieri gli armadi con gli essenziali costumi superchic di Mary Zophres (quelli maschili sono da collezione futurista, altro che Dune!), propongo un road trip tra le infinite, trenta e più, trasposizioni del Macbeth per il cinema e la tv. Distanze e affinità aiutano ad assaporare meglio l’operazione di Joel Coen.
Le streghe. Una sola, per Coen: la disossata, agghiacciante, lugubremente fantastica Kathryn Hunter che diventa trina al primo incontro profetico con Macbeth, riflettendosi in una pozzanghera. Era una sola, come la Yurei del teatro No, anche per Akira Kurosawa, che con Il trono di sangue trasportò nel 1957 il Macbeth nel XVI secolo nipponico.
Roman Polanski, che coltivava fin da studente il progetto del suo The Tragedy of Macbeth, realizzato nel 1971, sulle decrepite streghe nude del suo film inciampò di brutto, soprattutto per la censura. Il bigottismo cheap dei suoi detrattori prese a pretesto il produttore Hugh Hefner e il trauma della recente strage della family Manson a Beverly Hills.
Aggravante: anche la Lady Macbeth di Francesca Annis era giovane, bella e nuda come una coniglietta di Playboy. Ma il calderone delle streghe di Polanski è veramente kitsch e puerile, senza appello. Esattamente agli antipodi, il calderone di Coen è un incubo materializzato: una banale pozza d’acqua nella stanza di Macbeth. A parlare è il delitto che vuole certezze contro il castigo.
Orson Welles. Il suo Macbeth del 1948, girato con soli 65mila dollari in venti giorni, è il dichiarato punto di riferimento di Coen, nello spirito e nell’estetica. È l’espressionismo piegato a intercettare la barbarie degli appetiti e della corruzione che infestano l’umanità. È la prima opera di Shakespeare che Welles adatta per lo schermo e a sé stesso. Arcaico, quasi tribale però, il tiranno di Welles, quanto moderno, “familiare” e casual è quello di Denzel Washington.
La spettacolarità. È quella che ispira la versione kolossal, ineccepibile ma convenzionale, del Macbeth più recente, diretto nel 2015 da Justin Kurzel e interpretato da Michael Fassbender e Marion Cotillard, in omaggio alla coproduzione franco-britannica.
Niente esterni, per Coen: nebbie, rupi, lande e getti di pioggia artigianali sono tutti girati in teatro di posa. Sale spoglie e corridoi sterminati sono gusci nudi, un’astrazione geometrica che comunica con l’esterno per tocchi surreali: la lettera del primo atto, scena quinta, che vola in cielo incendiata da Lady Macbeth, o il tornado di foglie che investe Macbeth dalla finestra spalancata, perché il bosco di Birnam marcia verso Dunsinane, rispettando la profezia.
Lady Macbeth. C’è una tenerezza e un’intimità nel rapporto privato “da nozze d’oro” che Frances McDormand intrattiene con Denzel Washington che va molto al di là dell’istigazione al delitto. Nei cliché consolidati della tradizione teatrale, la sua lucida determinazione da manipolatrice ne ha sempre fatto una figura fredda, s’intende prima del crollo nervoso. La McDormand scarmigliata e sonnambula del monologo, qui, è un’Ofelia vista dal suo lato oscuro, una desperate housewife allo sbando, non innocente ma vittima. E a proposito: non è lei a uccidersi. C’è chi trama alle spalle degli assassini, e meglio di loro. Shakespeare non contemplava le zone grigie, ma Joel vive nel Ventunesimo secolo. L’ipocrisia ha fatto progressi epocali.
L’ossessione del Cursed Scottish Play, dell’opera scozzese maledetta. L’inevitabile spirale di morte del Macbeth è sicuramente un archetipo alla base di molto cinema dei Coen. Ma Polanski non è stato il solo a sognare ostinatamente la “propria” versione.
Laurence Olivier, che l’aveva portato in scena con Vivien Leigh in una produzione di John Gielgud, ha tentato disperatamente di farne un film, tra il 1955 e il 1958. Eppure la sua performance, ai tempi, era considerata “definitiva”.
Ma la coppia funesta ha stregato il cinema fin dal 1908. Si contano almeno otto versioni già ai tempi del muto. La prima, di James Stewart Blackton, durava dieci minuti, 255 metri di pellicola. La prima girata in Italia, da Mario Caserini nel 1909, arrivava a sedici. Fatico a immaginare gli script.
L’unico a riprovarci da noi è stato Alessandro Brissoni, nel 1960, per la Rai, ma era teatro filmato, come la Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene del 1997, sempre per la tv. E perfino uno scozzese purosangue come Sean Connery ha dovuto bussare alla tv canadese, nel 1961, per buttare alle ortiche lo smoking di James Bond e impugnare il pugnale dell’uomo che volle farsi re, scusate il riferimento.
Attualizzare il Macbeth
La riscrittura di Coen modernizza i dialoghi e, soprattutto, la recitazione. Tolta l’enfasi, tolta la regalità degli addobbi, sbiadisce la connotazione di classe. I Macbeth sognano e delinquono come i piccolo-borghesi di oggi. Ma la filologia è salva, e l’invenzione visiva conquista nuovi traguardi. Perché trasportando armi, costumi e bagagli nella cultura di massa dei giorni nostri la tragedia risulta invece indigesta.
È il caso di Joe MacBeth, del 1955, di Uomini d’onore di William Reilly, del 1990, con John Turturro, di Macbeth – La tragedia dell’ambizione di Jeoffrey Wright, nella Melbourne degli spacciatori, del 2006. Schema fisso: ambiente malavitoso, Duncan non è un re ma il boss di una gang, M. un gregario che vuole scalare la vetta.
Con più fantasia, ShakespeaRe-Told: Macbeth, capitolo di una miniserie della Bbc, piazza l’azione in un ristorante di lusso, e il coltello del cuoco James McAvoy è un arnese del mestiere. I tentativi di virarlo in commedia sono stati flop disastrosi.
Il modesto Macbeth in Manhattan, del 1999, giocava sul dietro le quinte di un allestimento shakespeariano a Broadway, le streghe erano regine del gossip.
© Riproduzione riservata