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- Quando mi sento stupido leggo Susan Sontag.
- Quando sento il cervello anchilosato, i pensieri che inciampano e le idee che sbadigliano, mi basta tirare giù dallo scaffale un libro a caso tra Davanti al dolore degli altri o Malattia come metafora, gli straordinari Diari o Contro l’interpretazione, aprirlo a una pagina qualsiasi e leggerne un po’.
Quando mi sento stupido leggo Susan Sontag. Quando sento il cervello anchilosato, i pensieri che inciampano e le idee che sbadigliano, mi basta tirare giù dallo scaffale un libro a caso tra Davanti al dolore degli altri o Malattia come metafora, gli straordinari Diari o Contro l’interpretazione, aprirlo a una pagina qualsiasi e leggerne un po’.
Ciò che provoca l’esposizione alla sua intelligenza ha qualcosa di fisico, contagioso, quasi taumaturgico: senti che di nuovo qualcosa nella tua testa ricomincia a muoversi, che si diradano i fumi di quell’“ovvio dei popoli” al quale, bene o male, siamo tutti assuefatti (la chiacchiera, l’abitudine, le frasi fatte). È una sensazione (o meglio: una benevola illusione, dato che alla fine rimango sempre lo stupido belinone che sono) che la lettura di Sontag mi ha sempre fatto.
Ma mi ha rassicurato trovarla descritta benissimo anche da Valeria Luiselli nel suo romanzo Archivio dei bambini perduti: «Ricordo che nel leggere Sontag la prima volta, proprio come la prima volta che ho letto Hannah Arendt, Emily Dickinson e Pascal, avevo di continuo sottili forme di estasi, improvvise e forse di natura microchimica – come piccole luci che sfarfallano nel profondo del tessuto cerebrale – quelle che prova una persona quando finalmente trova le parole giuste per definire una sensazione molto semplice e tuttavia rimasta inesprimibile fino a quel momento». Come luci che sfarfallano nel profondo del tessuto celebrale: ecco, quella cosa lì.
Applausi quindi al meritorio lavoro di nottetempo che da qualche tempo sta riproponendo tutta l’opera di Sontag: ultimo ad arrivare in libreria è Contro l’interpretrazione, una raccolta di saggi usciti per lo più su riviste (a cominciare dalla mitica New York Review of Books), pubblicata nel 1966 quando Sontag aveva appena 33 anni.
A un certo punto, nel primo dei saggi, trovo questa frase: «La maggior parte dei romanzieri e dei drammaturghi americani sono, in realtà, giornalisti, o sociologi e psicologi dilettanti». Lasciando da parte i casi – a dire il vero frequentissimi ma dai risultati così scarsi da mettersi da parte da soli – dei giornalisti, sociologi o politici che si improvvisano romanzieri dilettanti, il giudizio di Sontag mi sembra si adatti perfettamente a tanta produzione letteraria di oggi – italiana e no. Non è solo il caso, né mi pare il più grave, di quegli autori che danno la precedenza al “messaggio”, al contenuto morale delle proprie storie. Ma anche di quelli all’apparenza lontani da qualsiasi intento moralizzatore. Leggevo qualche giorno fa un romanzo recente, un testo “letterario” come collocazione editoriale, pubblicato da un buon editore e con ottimo riscontro di critica e di pubblico. E questo romanzo “diceva” delle cose interessanti, per niente stupide, a volte spiazzanti, idee e opinioni che valeva senz’altro la pena di ascoltare, sulla nostra vita, la vita nel presente.
Ma l’impressione più forte che ne ricavavo era quella di avere per le mani un oggetto compiutamente e serenamente (serenità dell’autore e di tutto il mondo intorno; molto minore era la serenità mia) post letterario: era qualcosa, cioè, pensato e nato fuori da quella che Walter Siti una volta ha definito la «casa della letteratura». La letteratura è una casa con tante stanze, stanze abitate dai diversi autori e autrici del passato, le cui mura sono fatte del linguaggio che hanno forgiato, e tu che scrivi lo fai per abitare quella casa, per diventarne inquilino, per plasmare e essere plasmato dalla lingua, perché… beh, perché la ami quella casa, i suoi abitanti, ami quell’arte fatta unicamente di linguaggio.
Ecco, leggendo quel romanzo era evidente che l’autore non considerasse ciò che stava facendo come qualcosa che ha a che fare con il linguaggio, con (non so dirlo in maniera più semplice di così) lo scegliere accuratamente le parole da usare una dopo l’altra.
Però, certo, quel romanzo aveva dei contenuti, non lo nego. Ecco, mi viene il dubbio che la fortuna, quando non l’egemonia, di questo genere di testi nasca proprio dal primato che diamo al contenuto: non solo nel senso di contenuto contrapposto a forma, ma proprio di content.
Sono libri che circolano, che sono “aerodinamici”, perché è facile trasformali in content, come si dice sui social. È facile venderli, comunicarli su Instagram, “pitcharli” per un pezzo sul giornale, attaccarci dei tag, dei metadati (“guerra in Ucraina”, “depressione”, “paternità”), portarli su un altro media, profilare il loro lettore, trasformarli in qualcosa d’altro.
Il content è questo oggetto tanto indefinibile quando onnipresente, il gancio per la nostra attenzione, il premasticato da far circolare nella comunicazione digitale, quel qualcosa su cui applicare like, view, contatti da monetizzare.
Tutto ciò succede quando pensiamo che lo stile sia la superficie, il guscio, la buccia di cui liberarsi per addentare la polpa del contenuto. Invece, almeno in letteratura (ma sospetto non solo lì), è vero l’opposto: «Di fatto, quasi tutte le caratterizzazioni metaforiche dello stile finiscono per situare il contenuto all’interno e lo stile all’esterno. Sarebbe più opportuno invertire la metafora. Il contenuto, il soggetto, è all’esterno; lo stile all’interno».
Leggete, leggete, leggete Susan Sontag.
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