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Quello di ridurre il celebre scrittore a coniatore di epigrammi e motti di spirito è un fenomeno con un suo nome preciso: flaianite.
- Tante sue battute sono note. Troppe. Perché molte, pure se regolarmente spacciate per sue, non lo sono, incluse le più famose.
- Ciò nonostante, quando mi guardo intorno e osservo l’umanità, penso a lui e a cosa direbbe.
Tante sue battute sono note. Troppe. Perché molte, pure se regolarmente spacciate per sue, non lo sono, incluse le più famose. «Ho poche idee, ma confuse», per esempio. Si trova nel Diario notturno di Flaiano, questo sì, ma è di Mino Maccari. Lo scrittore si limita a riportarla.
Anche quella ancora più famosa, «l’insuccesso mi ha dato alla testa», sembra sia di Maccari, che in effetti avrebbe detto «l’insuccesso ti ha dato alla testa» per consolare l’amico dopo la gragnola di fischi che accolse la prima di Un marziano a Roma al Lirico di Milano, il 23 novembre 1960, l’anno della Dolce vita. A detta di alcuni, il fiasco più memorabile della storia teatrale italiana dopo quello di Sei personaggi in cerca d’autore a Roma, negli anni Trenta di quel secolo.
Quello di ridurre Flaiano a coniatore di epigrammi e motti di spirito è un fenomeno con un suo nome preciso, flaianite, a cui Giovanni Russo ha dedicato un piccolo libro che porta lo stesso titolo. La flaianite non è piaga così diffusa quanto la mania per il paradosso del calabrone, ma lo è abbastanza da essersi ritagliata un posto nella Treccani, che ne dà la seguente definizione: «Tendenza a citare o attribuire, talvolta anche a sproposito, battute e aforismi dello scrittore e giornalista Ennio Flaiano (1910-1972)».
Il volo del calabrone
Ciò nonostante, quando mi guardo attorno e, con occhio ormai smagato, osservo l’umanità corrente sempre in cerca di facili scorciatoie, penso a Flaiano, a un suo eventuale commento, alla lezione che ne avrebbe tratto. Prendiamo, per dire, l’idea balzana per cui il calabrone riuscirebbe a volare nonostante i suoi limiti. Cosa direbbe lo scrittore in merito all’avvilente pertinacia che ci spinge a citarla estasiati e commossi, come se vi fosse riposta la soluzione a ogni nostra paura o fallimento? Tutto è falso in quel presunto paradosso della natura che la credulità popolare attribuisce al più famoso dei geni.
È falso che sia farina di Albert Einstein. È falso che il calabrone scompigli le leggi della fisica. È falso perfino il calabrone, perché colui che sollevò il dubbio pensava in effetti a un altro insetto, al Bombus terrestris, imenottero meglio noto col nome di bombo e diventato calabrone soltanto per noi italiani in seguito a un banale errore di traduzione. E falso è pure che il bombo voli contro natura, comunque sia. Di quel paradosso è vero soltanto che in un libro del 1934 intitolato Le Vol des Insectes, lo zoologo e ingegnere aeronautico francese Antoine Magnan scrisse di aver applicato al bombo le leggi di resistenza dell’aria giungendo alla conclusione – errata – che il suo volo è impossibile. Eppure quando qualcuno ripesca questa storia, in tanti ci cascano ammaliati.
Mi domando perché. Me lo domando in senso retorico, ovviamente. Lo so bene il perché, anche se vorrei non saperlo. Quanto a cosa direbbe Flaiano. Per cominciare, forse direbbe che, malgrado sia nata altrove, la storia del calabrone che vola in barba alle leggi della fisica sembra fatta per noi. Consiglierebbe di guardarsi attorno: le nostre strade non pullulano forse di calabroni? Secondo il codice della strada, direbbe Flaiano, l’italiano non potrebbe parcheggiare in seconda fila ma lui, ignorando quel codice, se ne frega e parcheggia lo stesso.
Freghiamocene
Non mancherebbe poi di osservare che poco o niente importa che la storia sia falsa, perché a nessuno interessa più la verità delle cose, a meno che la verità non coincida con il proprio comodo. Osserverebbe che il paradosso viene in soccorso del nostro tratto più vistoso, l’inclinazione che meglio ci definisce in quanto italiani: fregarcene. Fregarcene delle regole, liquidarle come cavilli, minuzie per i poveri di spirito. Fregarcene delle competenze, fare ciò che crediamo sempre e comunque, pur non avendone i titoli né le capacità. È infine altamente probabile se non certo che Flaiano vedrebbe nel calabrone, oltre che un soccorritore, un magnificatore del nostro carattere, un’invenzione capace di far passare per ardimento ciò che è semplice cialtroneria.
Parliamo però di un Flaiano particolare, quello che pensa con la mia testa. Cosa direbbe il vero Flaiano nessuno lo sa, o almeno non lo so io. Forse non lo saprebbe nemmeno lui. L’uomo era sfaccettato e non sempre prevedibile, non sempre conforme all’immagine che lo voleva principalmente fustigatore satirico dei nostri costumi.
Senza contare che Ennio Flaiano una sua versione del volo del calabrone ce la diede molto prima che la faccenda diventasse popolare: «Il calabrone entra nella stanza illuminata, va a battere velocemente contro la lampada, le pareti, i mobili: rumore secco delle sue zuccate. Dopo un po’ si acquatta per riprendere le forze. Ricomincia contro la lampada, le pareti, i vetri e daccapo la lampada. Infine cade sul tavolo, zampe all’aria; la mattina dopo è secco, leggero, morto. Non ha capito niente, ma non si può dire che non abbia tentato».
E a proposito di tentativi, mi ero quasi stupito l’altro giorno che la metro funzionasse. Di solito, d’estate, alla metro succede qualcosa. Le succede spesso qualcosa, anche in inverno, intendiamoci, ma non come in questa stagione. Difatti stamattina, mentre pensavo ancora allo stupore dell’altro giorno, arrivo alla fermata e la trovo chiusa. STAZIONE FUORI USO CAUSA SCALE MOBILI, dice. Solo che le stazioni fuori uso vanno da Cinecittà a Termini. Arrivato a Termini scopro che è fuori uso anche la mia card munita di chip che ho caricato la sera prima. È scaduta, dice sicura l’addetta dell’Atac. Come scaduta? L’ho caricata online ieri.
A dimostrazione, tiro fuori la ricevuta, che ho stampato perché nella mail spedita ieri sera dall’Atac si diceva che la ricevuta elettronica deve essere comunque stampata su carta e mostrata unitamente alla carta elettronica in caso di controllo. Allora non so che dire, dice l’addetta. Non è un problema mio, aggiunge, usando un’espressione in voga di questi tempi.
C’è scritto Atac sulla sua camicia: che vuol dire che non è un problema suo? Vuol dire che per risolvere il problema devo andare in biglietteria. Andare in biglietteria vuol dire andare al piano di sopra e perdere un quarto d’ora minimo. Vado. Un’altra addetta mi chiede quando ho ricaricato la carta. Ieri. Ecco perché, dice. Problema risolto, dice. Devono passare quarantotto ore perché dal sito l’informazione passi al sistema, spiega. Chiedo di capire.
Mi sta dicendo che prima, quando compravo la tessera di carta dal tabaccaio, potevo usare i mezzi subito, mentre adesso, con la digitalizzazione, la ricarica online in tempo reale, la carta con il chip seppure accompagnata da scontrino elettronico stampato su carta, devo aspettare quarantotto ore. È il sistema, dice, ci vogliono quarantotto ore.
Ma la faccio passare lo stesso, se vuole. Passo. Finalmente sono in metro. Dopo poco però la voce sintetica annuncia, prossima fermata Manzoni. Panico. Come Manzoni? Vado nella direzione opposta. Penso all’incubo di scendere a Manzoni, tornare a Termini, chiedere all’addetto di farmi passare. Poi penso che Manzoni è chiusa e non posso comunque scendere. La scritta sullo schermo però conferma, prossima fermata Manzoni. I viaggiatori cominciano a guardarsi tra loro. I turisti non capiscono, mettono mano ai telefoni, alle guide. Poi ecco apparire la fermata di Repubblica. Solo che la metro non si ferma. Ma non era stata riaperta Repubblica? Sì, ma l’hanno richiusa. E Spagna? Spagna è aperta? Non si sa. La metro prosegue la sua corsa e prima o poi si fermerà, forse addirittura entro i confini di Roma capitale.
In qualche modo arrivo all’Eur e, sebbene non sia quella la mia meta, decido di vagare un po’ per queste strade metafisiche, molto estive, strade che conservano un’aria disabitata anche con il traffico. A un tratto spunta la sagoma quasi aliena del Fungo. Osservo quel disco volante poggiato su alti pilastri di cemento e mi sento come Vincent Price nell’Ultimo uomo della terra. Soltanto ora mi rendo conto che non dovrei essere qui, perché la linea A non passa per l’Eur. Come sono arrivato quaggiù? Non lo capisco, ma non si può dire che non abbia tentato.
Questo testo è tratto da Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone editore), candidato al premio Strega da Nadia Terranova
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