Stanley Kubrick in persona era complice del Plan B della Nasa. Reduce dal trionfo di 2001: Odissea nello Spazio, era stato chiamato a girare negli Studios londinesi della Metro Goldwin Mayer l’allunaggio precotto del 21 luglio 1969, protagonisti tre agenti della Cia che subito dopo furono spediti in Vietnam, tanto per isolare scomodi testimoni. E di uomini Cia era composta l’intera troupe impegnata nelle riprese. Un falso d’autore scomparso dagli archivi.

Tra tutte le fantasie bislacche che da un cinquantennio titillano i complottisti di tutte le latitudini, questa è di gran lunga la più spassosa e la più sempliciotta. La Moon Oak, la "frottola della Luna” inscenata per l’impresa dell’Apollo 11, è forse la più popolare e la più fortunata delle teorie complottiste. Il saggio di riferimento, We Never Went to the Moon, firmato nel 1976 da William Charles Kaysing, è un classico, per gli appassionati.

Kaysing sosteneva che si trattava di un’impresa impossibile per la tecnologia dell’epoca, e che fu pianificata solo per sanzionare, in piena Guerra Fredda, l’immagine della supremazia militare, politica e ideologica degli Usa sull’Urss.

I comunisti erano riusciti a spedire nello spazio prima la disgraziata cagnetta Laika e poi Yuri Gagarin: uno scacco inaccettabile. E Nixon doveva distogliere i riflettori planetari dalla guerra del Vietnam, con quei Vietcong noiosamente ostinati a resistere da ben nove anni.

Inoltre, il Congresso cominciava a storcere il naso sul budget di trenta miliardi di dollari che sperperava sistematicamente la Nasa. Ancora nel 1999, secondo un sondaggio Gallup, il 6 per cento dei cittadini americani nutriva dubbi sulla veridicità dell’allunaggio. È buffo che mezzo secolo dopo la sfida spaziale sia oggi tra Usa e Cina.

Il marketing a Cape Kennedy

Non ti aspetti che da questa controversa materia Columbia Pictures e Apple Original Films siano riuscite ad estrarre – in combutta – una commedia che rompe il diagramma piatto di tanta produzione americana recente, una commedia succosa, intelligente e ben scritta (da Rose Gilroy, il regista è Greg Berlanti). Fly me to the Moon – Le due facce della Luna sarà in sala da noi con Eagle Pictures dall’11 luglio, e il titolo, ispirato a una celeberrima hit di Frank Sinatra, come captatio benevolentiae non guasta. La data di uscita sfrutta sfacciatamente l’occasione del cinquantenario dello storico allunaggio, ma questo è un peccato veniale.

L’idea ganza è di far ruotare la storia intorno a Scarlett Johansson (che figura anche come coproduttrice), una saleswoman di bassa lega ingaggiata dall’agente governativo Moe (Woody Harrelson) per «vendere la Luna». L’elettorato Usa scalpita per le spese astronomiche delle missioni spaziali, della space race? È solo un problema di marketing. Kelly Jones è ricattabile e spregiudicata, perfetta per lanciare il “prodotto” Apollo 11. È una Mad Man versione femminile.

Tra l’altro, sapete perché i Mad Men si chiamavano così? Erano i creativi della pubblicità di Madison Avenue, la crème de la crème. Secondo le regole auree della screwball comedy, il primo impatto tra Kelly e Cole Davis (Channing Tatum), che è il direttore del lancio, è conflittuale all’estremo. Spencer Tracy e Katharine Hepburn restano sempre i fondamentali.

Non è vero.., ma ci credo! era il titolo di una commedia di Peppino De Filippo. Non sarà vera, ma è perfettamente verosimile la campagna promozionale imbastita da Kelly per conquistare un consenso di massa. I capi-progetto sono vincolati al top secret? Basta reclutare attori-sosia per rilasciare spudorate ma stuzzicanti interviste Tv.

È decisivo orchestrare frottole promozionali sulle bibite energetiche, le t-shirt, i Rice Crispies e gli orologi di brand famosi che «andranno in orbita» con Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. Figuriamoci. Se compri quella macchina fotografica «vedrai il mondo come loro». Le sponsorizzazioni sono il grimaldello infallibile della pubblicità. «Bisogna rendere i tre astronauti dell’Apollo 11 più famosi dei Beatles».

Come Spencer Tracy e Katharine Hepburn

Va detto che Scarlett Johansson e Channing Tatum, che peraltro funzionano, sono caricature comiche di sé stessi. Lei è strizzata in capetti di deplorevoli tinte pastello tutti nastrini e fiocchetti, un look vintage da non riabilitare. Eye liner, rossetto acceso e parrucca bionda sono quelli di Marilyn buonanima, come quei tremendi reggiseni a punta che le femministe buttarono al rogo alla prima occasione.

Lui sembra la propria riproduzione al Museo delle cere: pelle asfaltata come il linoleum e il più improbabile accrocco di peli mai avvistato sul cranio di un uomo, a metà strada tra un parrucchino bisunto e una cuffia da bagno. Anche la canottiera che traspare sotto le magliette sintetiche è poco allettante. Ma indiscutibilmente tutto fa period, con scrupolo certosino.

Di colpo però l’emissario della Casa Bianca commissiona alla promoter un falso filmato da usare come Plan B, in caso (probabile) di fallimento, il Project Artemis (Artemide, non a caso, è la sorella gemella di Apollo): «Comunque vada, il mondo vedrà la bandiera americana piantata sulla Luna, il mondo non dormirà sotto una Luna comunista».

Deve girarlo in un hangar della Base un regista rigorosamente sconosciuto. Fioccano di continuo, nel film, i riferimenti alle leggende metropolitane del complottismo: «Dovevamo prendere Kubrick», lamenta Kelly davanti alle fesserie del suo amico regista, un fallito borioso. Nelle more, Cole-Tatum nei week end fa volare Kelly sul suo aereo da diporto, un po’ come Robert Redford con Meryl Streep in La mia Africa, e scatta la prima scintilla amorosa.

I complottisti hanno "quasi” ragione

Finché finalmente da Washington all’imbonitrice, autentica artista della truffa, arriva un ordine tassativo: nella diretta planetaria – con quattrocento milioni di spettatori previsti  – si vedrà solo l’allunaggio-show, non quello vero.

«Per battere la Russia in tv, la trasmissione deve contare su un ambiente controllato». Così il film evolve sviluppando una suspense strappabudella, perché bisogna convincere Woody Harrelson che quello che sta guardando sul monitor, durante l’evento, non è cronaca vera ma pura finzione.

Ed è buffissimo, perché quando risuona la leggendaria One small step for a man, one giant leap for mankind – che Kelly stessa ha suggerito a Neil Armstrong, e anche questa è una trovata non male – Moe commenta: «Ma era nel copione? Bella frase!». La pantomima allestita a Cape Kennedy, complici tutti gli interessati, salverà gli Usa dal disastro, perché sul set dello show il gatto-mascotte della base ha introdotto una imprevedibile comparsata felina sulla vergine superficie lunare.

Screwball comedy, quindi, con love story da ring, in satira celebrativa e soavemente patriottica. Cinema e show televisivi hanno giocato a ripetizione con la Moon Oak e il set fantomatico del falso allunaggio.

Non solo Capricorn One, che imbastiva un thriller su una vicenda parallela, anche i Minions di animazione e Agente 007 – Una cascata di diamanti riciclavano ironicamente le fantasie complottiste, anche le serie popolarissime de I Griffin e Rick and Morty. E non mancano i videogames ‘”dedicati”. Quest’ultima rilettura è scandita da una valanga di sostanzioso rythm ‘n blues d’epoca. Che francamente non fa neanche lontanamente rimpiangere il Frank Sinatra del titolo.

© Riproduzione riservata