-
Anche se il fotogiornalismo non è considerato una pratica artistica, alcune immagini dei fotoreporter finiscono per trasformarsi in icone. Le più potenti hanno così scosso l’opinione pubblica da influenzare il corso della storia.
-
Le fotografie di Francesco Cito, uno dei primi a raggiungere l’Afghanistan nel 1980, hanno il dono della sintesi e notevole è la sua capacità di raccontare i conflitti e le contrapposizioni tra i popoli per far comprendere l’attualità storica.
-
«L’Afghanistan che ho conosciuto era un luogo meraviglioso, prima dell’invasione sovietica la società era diversa: Kabul era meta di hippy che facevano tappa lì per fumare hashish», racconta Cito. A quelle persone ora è di nuovo negata una vita.
I fotogiornalisti non sono artisti, non almeno nel senso che si attribuisce a questa parola normalmente. Vanno a caccia di notizie, si immergono nei fatti per raccontarli sui giornali. Vivono di adrenalina, mescolando tratti più complessi dell’ego a una profonda umanità. Non aspirano a vedere il loro lavoro incorniciato in galleria: le guerre c’entrano poco con il collezionismo. Eppure, il reportage non è ascritto solo allo spazio in cui vive la notizia. La sua eco arriva oltre, si radica nelle vicende narrate e in noi che osserviamo.
Ne è esempio lampante lo shop online dell’agenzia Magnum Photos, dove sono esposte in tiratura libera o limitata le più straordinarie storie documentarie narrate nei decenni, o le grandi attività dei dipartimenti di fotografia di Christie’s e Sotheby’s, attenti a proporre in asta autori come Robert Frank, Diane Arbus o Steve McCurry. Non mancano inoltre loro mostre in spazi museali che normalmente accolgono esposizioni d’arte.
Alcune immagini finiscono per trasformarsi, loro malgrado, in icone, ma le più potenti hanno così scosso l’opinione pubblica da influenzare il corso della storia, come lo scatto di Nick Ut simbolo della guerra in Vietnam, che riprendeva una bimba nuda in fuga dal napalm, o quello di Jean-Marc Bouju che mostrava un prigioniero iracheno incappucciato confortare il figlio dietro il filo spinato.
Anche le vicende passate e recenti dell’Afghanistan sono state immortalate da milioni di obiettivi. Gli autori italiani che sono stati lì hanno un tratto comune, più etico e lontano dalla produzione di immagini splatter, sempre più eclatanti, fiorita nell’ultimo ventennio per colpire i giudici dei contest internazionali.
La guerra senza sangue
Carlo Bavagnoli, unico italiano a lavorare per Life, diceva che «ai suoi tempi si mostrava la guerra senza sangue», una sorta di delicatezza, di autocensura, che col tempo abbiamo dimenticato. Ugo Panella, che fin dagli anni Settanta ha scelto la denuncia e l’impegno civile, in Afghanistan c’è stato una trentina di volte.
Le sue fotografie sono composte con rigore formale, ogni dettaglio a posto, quasi voglia ostinatamente ritrovare un ordine estetico nel caos, e caricate di valenze simboliche, come il ritratto a Laila, una signora che alza il burka per scoprire il volto e sorridere al suo obiettivo, metafora di una conquistata libertà oggi ancora in pericolo. Lui documenta da anni le attività di Fondazione Pangea Onlus che si occupa di microcredito.
«Mi ha permesso di seguire storie di donne e famiglie che, grazie agli aiuti, hanno potuto ricevere assistenza sanitaria e istruzione. A quelle persone ora è di nuovo negata una vita». È nota la sua inchiesta sull’ospedale della Croce Rossa di Kabul, con figure umane sempre protagoniste.
«Tutti quelli che lavorano lì sono amputati, nel paese il 79 per cento dei mutilati sono civili. Il problema delle mine disseminate sul territorio è grave, c’è il più alto numero di vittime di qualsiasi luogo al mondo. I russi hanno fabbricato bombe per ferire i bambini, che le raccolgono pensando siano giocattoli. Sono i pappagalli verdi citati da Gino Strada, lasciati su terreni che non possono più essere coltivati».
A caccia di bin Laden
Le fotografie di Francesco Cito, uno dei primi fotoreporter a raggiungere clandestinamente l’Afghanistan nel 1980, hanno il dono della sintesi e notevole è la sua capacità di raccontare i conflitti e le contrapposizioni tra i popoli per far comprendere l’attualità storica. Predilige il bianco e nero e un obiettivo grandangolare che consente un’ampia visione, per collocare meglio le persone nel paesaggio, come se il paesaggio fungesse da contenitore ai racconti.
Conoscitore della politica estera e del mondo, si mosse al seguito dei guerriglieri che combattevano i sovietici, percorrendo a piedi 1.200 chilometri e portando a casa visioni memorabili di quei fatti. «Non c’erano ferrovie, né strade, né luci a illuminarle» racconta, «era una società arcaica e affascinante. L’ultima volta che sono stato lì ero a caccia di Osama bin Laden. L’Afghanistan che ho conosciuto era un luogo meraviglioso, abitato da persone belle».
«Prima dell’invasione sovietica la società era diversa, Kabul era meta di hippy che facevano tappa lì per fumare hashish. I russi arrivarono perché avevano compreso cosa sarebbe successo con Khomeini in Iran e che il fenomeno si sarebbe esteso. Pur di non ritrovarsi una rivoluzione in casa, misero un tappo. Gli americani foraggiarono i guerriglieri afghani contro i russi, sentivano il bisogno di riscattarsi dal Vietnam. In fondo sia bin Laden sia Saddam Hussein furono appoggiati dagli americani».
Luci e ombre
Immagini dinamiche, contrastate, luci e ombre che fanno emergere i soggetti per Lorenzo Tugnoli, che ho raggiunto al telefono mentre si trovava Kabul. Membro dell’agenzia Contrasto e collaboratore stabile del Washington Post, con la scrittrice Francesca Recchia ha pubblicato The little book of Kabul (Ebs, 2014), affresco fatto attraverso la vita quotidiana degli artisti in città.
Un Pulitzer nel 2019 per il racconto della crisi umanitaria in Yemen, e un World Press Photo nel 2020 per un reportage potente e delicato sulla guerra afghana: «Sto lavorando da tempo sugli effetti che la guerra ha avuto sulla società civile» dice, «i Talebani ora si muovono lenti e ponderati, si fanno fotografare e parlano inglese. La crisi economica è forte, ci sono file alle banche, ma la gente è più consapevole, anche se le differenze fra le città e le zone rurali sono evidenti. Quanto a me, ora trovo incredibilmente semplice lavorare qui: agli stranieri non torcono un capello, loro non hanno uomini e c’è un decimo dei checkpoint che avevano istituito in passato».
Fa le stesse considerazioni Livio Senigalliesi, il cui impegno lo ha condotto fin dagli anni Settanta su molti fronti caldi. Era a Berlino e Mosca nei giorni della caduta dei regimi, in Medio Oriente e in Kurdistan durante la Guerra del Golfo, ha vissuto a Sarajevo durante l’assedio. Dice che i suoi reportage «sono più attenti all’etica che all’estetica», ma le foto che lo hanno reso famoso sono frutto di studio e di una lunga permanenza in prima linea.
Memorie di un reporter
Il suo libro Memories of a war reporter è ora un testo usato nelle università e nelle scuole di giornalismo. «Il mio mestiere assorbe da quattro decenni tutte le mie energie, richiede totale dedizione. Sul piano estetico e formale, mi piace usare ottiche grandangolari per porre i soggetti al centro, ravvicinati rispetto alla scena, per dare importanza all’azione. È il mio modo di intessere legami umani duraturi, le persone sono state parte del mio cammino, oltre che del mio osservare e l’Afghanistan mi è rimasto nel cuore perché amo la storia e lì la vivi più intensamente. Dieci ore di volo ti portano dentro a un Medioevo che si sta svolgendo, dove tutto è antico, a parte quei grigi edifici sovietici di cemento che chiamano block.
La sua geografia è difficile da attraversare, con passi alti 4.000 metri, servono settimane di fuoristrada per arrivare alle zone più remote. C’è un miscuglio di etnie che non hanno nemmeno l’aviazione, eppure sconfiggono invincibili armate straniere. Ora vivono una sospensione, con immense differenze tra zone urbane e mondo agricolo. Da embedded mi resi conto che ai soldati era proibito avere contatti con la popolazione, controllavano un’area strategica, non la democrazia, hanno trattato coi signori della guerra che gestivano il mercato della droga. Lì è un risiko senza fine».
Vita e guerra
Un territorio complesso e disomogeneo, ma «che emana un enorme fascino» ricorda Giulio Piscitelli, come Tugnoli anche lui rappresentato da Contrasto. I suoi paesaggi afghani sono mappature riprese da alta quota, talvolta astrazioni senza presenze umane, che riportano le suggestioni del luogo. È andato al seguito dei militari italiani nel 2013 e ha realizzato la serie scattando dal portellone aperto di un elicottero.
«Ci sono deserti, montagne, passi impervi, vallate verdi, zone rurali non collegate tra loro. Esiste solo la Ring Road, o Route One, una strada pensata durante l’invasione russa, metafora di un Paese che ha tentato di riconnettersi con sè stesso, ma non ci è mai riuscito». È tornato lì nel 2018 in due occasioni, per produrre un lavoro sui due ospedali di Emergency esposto in una mostra voluta per celebrare il venticinquesimo compleanno dell’associazione umanitaria. Nei suoi ritratti non cruenti, dove predominano il bianco e la luce, ha messo a fuoco il legame tra le vittime e la guerra, tra i feriti e chi li ha colpiti.
Le foto sui giornali
Coniugava etica, estetica e verità anche Romano Cagnoni, mancato nel 2018 e considerato uno dei migliori fotogiornalisti del XX secolo. Si trovava a Teheran con un visto turistico quando l’Afghanistan è stato invaso dall’Unione Sovietica. La moglie Patricia, presidente della fondazione che porta il suo nome, nata nel 2019 per tutelare la memoria e l’identità artistica dell’autore e per la conservazione del suo vasto archivio, mi racconta che la sua permanenza lì è stata quasi un caso di spionaggio.
«Comprò una fotocamera 110mm, la teneva nascosta nelle manopole di lana che lo riparavano dal freddo e, quando lo fermò la polizia portuale, disse che faceva il pittore. Cercò di camuffarsi con i locali per non dare nell’occhio, dopo una perlustrazione in città prese un autobus per Mazar-i Sharif e scattò dal vetro del finestrino, una serie di colpi di tosse coprirono il rumore dell’otturatore».
«Rischiò più volte di essere scoperto, ma grazie alla sua capacità di relazionarsi con le persone, tornò col suo bottino di immagini. Quel reportage fu pubblicato ovunque, venne citato dall’allora presidente francese Giscard d'Estaing: era testimonianza dell’invasione che i sovietici negavano a tutti». Di sé diceva di non essere un fotogiornalista, ma «un fotografo che pubblica le sue foto sui giornali». Il suo celebre ritratto a Ho Chi Minh, nel 1966 fu uno scoop mondiale e gli valse la copertina di Life.
© Riproduzione riservata