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Quello che Lindbergh fa con le sue fotografie è una narrazione: racconta le storie delle persone che posano per lui. Le donne che ritrae sono vive, e se gli altri colleghi si prodigano per regalare alla moda tutta la fascinazione possibile, Peter fa affiorare segni, espressioni e umori che chiunque si danna per cancellare.
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«È responsabilità dei fotografi liberare le donne dal terrore della perfezione e della giovinezza», diceva.
- Molte di loro ci guardano ridendo dalle pareti del Museo Madre di Napoli dove, fino al 20 di giugno, è possibile visitare Peter Lindbergh: Untold Stories. Dopo la tappa napoletana, la personale curata e pensata dallo stesso Lindbergh girerà l’Europa.
È il 1988 e mentre Bret Easton Ellis sta scrivendo di un ragazzo dell’upper class newyorkese che giudica le persone dai calzini che indossano, la direttrice di Vogue America chiama il fotografo Peter Lindbergh e gli commissiona un servizio per la rivista.
Lindbergh la avverte: la sua idea di donna è diametralmente opposta a quella che sfocia dalla carta patinata, non ha nulla a che fare con i corpi plastici di Guy Bourdin o con quelli scultorei di Helmut Newton. Ma la direttrice insiste: «Voglio la tua visione».
E lui mette in scena il suo sguardo. Convoca sei ragazze, all’epoca sconosciute e bellissime, sulla spiaggia di Santa Monica, in California. Nello sconcerto generale manda via le truccatrici dal set, «Non serve il make up, grazie», e veste le sue muse nello stesso identico modo: una camicia bianca da uomo, come se si fossero appena svegliate dopo aver fatto l’amore tutta la notte e chiede loro di fare semplicemente quello che vogliono. Le modelle improvvisamente tornano ragazze, ridono davvero, si spintonano e parlano mentre si raccolgono i capelli un po’ a caso, come facevano le compagne di accademia che Peter spiava immaginando i loro segreti.
Senza moda e artificio
«Se togli la moda e l'artificio, puoi vedere la persona reale», dice Lindbergh che con la sua visione fa collassare in un istante gli anni Ottanta, anticipando il minimalismo dei Novanta.
Ma quando consegna gli scatti in bianco e nero di Linda Evangelista, Christy Turlington, Tatjana Patitz e delle altre ragazze, la direttrice ringrazia e ripone tutto in un cassetto della scrivania.
Troppo naturali per lei, troppo vere, e a chi importa tutta questa verità? Dov’è il sogno?
«Le foto non sono in linea con gli standard estetici della rivista», così vengono dimenticate e tutto il futuro che si portano impresso rimane chiuso nel cassetto.
Passano un paio d’anni e Lindbergh viene chiamato da un’altra direttrice, sempre Vogue ma questa volta UK. Gli viene assegnata la copertina di gennaio con un compito: «Voglio che tu faccia qualcosa che esprima quello che pensi saranno gli anni Novanta».
E lui «Ok, l’ho già fatto». Dunque mette in scena ostinatamente quello che era stato archiviato come un errore e chiama cinque ragazze: a Linda Evangelista, Christy Turlington e Tatjana Patitz si aggiungono Naomi Campbell e Cindy Crawford.
Niente spiagge a questo giro ma le strade di New York, loro in jeans con dei top corti. Esattamente come vanno in giro le ragazze. Perché il centro incandescente di tutto non è ciò che indossano ma sono loro, lo splendore dei corpi, la verità dei visi. Quella foto costituisce un “prima”. Dopo ne vedremo tante, tantissime simili, che ci riporteranno a quella prima volta in cui qualcuno ci ha fatto guardare il mondo da un’altra prospettiva.
Se è vero, come dice quel filosofo di Hannibal Lecter, che «Desideriamo ciò che osserviamo ogni giorno», Lindbergh con la sua intuizione ci ha aiutato a spostare il nostro sguardo, facendoci bramare il contrario di quello che per un decennio abbiamo creduto di volere.
Nel gennaio del 1990 grazie a quella copertina Linda, Christy, Tatjana, Naomi e Cindy si spogliano dei cognomi, perché lui le trasforma nelle super model: divinità da evocare con il solo nome di battesimo.
Ricordo perfettamente il mio impatto con quell’immagine: avevo quindici anni e mangiavo soprattutto le pagine delle riviste di moda, mi nutrivo dell’odore del lusso per divorare tutto quello che avrei voluto. Strappavo le foto che mi piacevano di più, dividendole per categorie: conservavo per la mia vita di domani i tagli di capelli che avrei provato, le scarpe su cui avrei camminato, i vestiti fragorosi in cui avrei brillato. Quella foto luminescente non sapevo però in quale categoria infilarla, perché andava oltre gli accessori che conteneva: non erano i top o i jeans, era la potenza della bellezza delle ragazze, così soprannaturale e al tempo stesso così reale. Io volevo essere loro.
Fare la storia
Quando in un’intervista hanno domandato a Lindbergh come fosse riuscito a realizzare una delle immagini di moda più iconiche di sempre, lui ha risposto: «Non avevo idea che quello scatto avrebbe fatto la storia. Non ho dovuto pensarci per realizzarlo. Non ho fatto niente, ho solo usato un po’ di luce. È stato naturale, senza sforzo. Non sentivamo che avremmo cambiato il mondo, era tutta intuizione».
Per Lindbergh la fotografia di moda funziona ed è addirittura più evocativa senza mettere la moda al centro perché, come spiegava lui stesso: «Non fotografo vestiti, faccio ritratti. La fotografia è molto più grande della moda, fa parte della cultura contemporanea».
Fotografo lui lo è diventato quasi per caso, perché partendo da quello che non si sa, spesso si riesce ad arrivare a quello che si vuole. Dopo aver studiato pittura e viaggiato in autostop per l’Europa svolgendo piccoli lavori occasionali, Lindbergh diventa l’assistente di un fotografo a Düsseldorf. Se la cava bene, utilizza gli spazi e i colori in modo inconsueto pescandoli direttamente dalla memoria della sua infanzia: quando Peter ha due mesi, l’esercito russo invade la Polonia costringendo la sua famiglia a scappare per trasferirsi a Duisburg, in Germania. Il cielo plumbeo che si tuffa nel cemento delle fabbriche si sedimenterà nei suoi occhi influenzando moltissimo il suo lavoro. «Se fossi cresciuto in un altro posto la mia visione e la mia estetica sarebbero state diverse».
No alla messa in scena
Una delle prime campagne pubblicitarie che gli affidano è per il tabacco Samson. Lui va ad Amsterdam e decide di fotografare le persone per strada che si arrotolano le sigarette mentre aspettano che la vita accada. Nessuna posa, niente di artefatto: gli scatti hanno lo stile del reportage documentaristico. Dirà: «Non so perché ho voluto fare delle fotografie così. Fondamentalmente sentivo che le foto messe in scena erano semplicemente stupide».
E questa rimarrà la cifra di tutto il suo lavoro, perché quello che Lindbergh fa con le sue fotografie è una narrazione: racconta le storie delle persone che posano per lui. Soprattutto le donne che ritrae sono vive, e se gli altri colleghi si prodigano per regalare alla moda tutta la fascinazione possibile, la macchina fotografica di Peter fa affiorare segni, espressioni e umori che chiunque si danna per cancellare.
«È responsabilità dei fotografi liberare le donne dal terrore della perfezione e della giovinezza», diceva. Perché lui, nato a Leszno sul finire della più sanguinosa delle guerre, amava la libertà. Per questo ha mandato alle ortiche stereotipi e superato canoni di bellezza, e in più di quarant’anni di carriera le divinità che si sono spogliate dagli orpelli per lui sono state tante: Uma Thurman, Kate Moss, Madonna, Nicole Kidman, e ancora Kate Winslet, Julianne Moore, Meghan Marklel, Milla Jovovich.
La visione in eredità
Molte di loro ci guardano ridendo dalle pareti del Museo Madre di Napoli dove, fino al 20 di giugno, è possibile visitare Peter Lindbergh: Untold Stories. Dopo la tappa napoletana, la personale curata e pensata dallo stesso Lindbergh girerà l’Europa. Chi avrà la fortuna di visitarla, si troverà circondato da 140 fotografie scelte da lui, che non ha potuto però vederla allestita. Lindbergh, che misurava ogni frazione di secondo in esposizione, ha probabilmente scorto in anticipo la sua morte, avvenuta il 3 settembre del 2019, e forse per questo ha lavorato tantissimo: per avere il tempo di lasciarci la sua visione in eredità.
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