Il mio viaggio comincia con un tormento: ho dimenticato il sonnifero a casa. A Francoforte non dormirò, sarà un disastro, sarò un disastro, eppure avrebbe potuto essere l’occasione della mia vita. È quello che so fare meglio, una vera abilità, sprecare le opportunità che mi si offrono. È sempre stato così, se sto bene mi faccio del male e se sto male non faccio niente. Almeno ho qualcosa da dire quando un giornale mi propone di scrivere ottomila battute sulla mia esperienza a Francoforte.

È da almeno vent’anni che non resto una notte senza sonnifero: va bene un ipnotico, anche un ansiolitico sa fare il suo lavoro, se proprio non c’è nulla trovo, in qualche cassetto, un vecchio involucro con dell’hashish e, dopo un vorticoso viaggio dentro paranoie strazianti, finalmente dormo. Altre volte basterebbe il soporifero abbraccio di un uomo, ma è importante che le distanze tra la sua clavicola, il suo capitello radiale e il suo carpo siano perfettamente proporzionate rispetto allo spazio che il mio corpo occuperà adagiandosi tra il suo arto e il cuscino.

Non deve trattarsi, poi, di uno di quegli uomini che aspettano che io mi addormenti per poi sfilare furtivamente il braccio: me ne accorgerò, sarò triste e insonne, soffrirò quell’abbandono come ho sofferto il primo, scivolando via, sconsolata, dal grembo di mia madre. Mi ero attaccata con rabbia alla placenta, ma non è valso a nulla: quei pazzi mi hanno minacciata con un forcipe e io, senza dar prova di grande eroismo, ho acconsentito a nascere. Caro uomo che sfili il braccio, è a te che mi rivolgo adesso, sei il traditore della notte, feroce come uno strumento ostetrico che mi incoraggia a nascere pensando di lusingarmi con una torsione di cranio.

Insonnia

Torniamo a Francoforte, sennò altro che ottomila battute… Come al solito sono partita dalla genesi, da quando la terra era informe e deserta e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Sono ancora sull’aereo e metto al vaglio ogni possibilità, devo assolutamente trovare una soluzione per il mio sonno. Qualcuno avrà un ansiolitico per affrontare il volo: scruto gli occhi dei passeggeri, cerco di indovinare quali siano quelli più stanchi, annebbiati, con le palpebre abbassate a mezz’asta.

C’è persino qualche uomo di buona presenza, dovrei solo avere l’occasione di misurarne parte dello scheletro, almeno l’omero e il radio, stando ben attenta, però, a non privare il nostro incontro di romanticismo. Gli uomini ci tengono. Per me l’amore – anche quello breve, destinato a un immediato consumo – è sempre clinico, anatomico, osteologico e patologico, ma non è detto che confessarlo subito sia la migliore strategia per assicurarmi la presenza di un “uomo-culla” nella mia alcova sul Meno.

Dunque, così procedo: innanzitutto domando a un assistente di volo, di bell’aspetto e con un’ulna niente male, se per caso detiene dieci grammi di zolpidem tartrato; lui potrebbe incarnare entrambe le soluzioni, quella farmacologica e quella anatomica. Mi guarda con sospetto, poi con curiosità bonaria, infine, vedendo che resto ferma sulla mia posizione, mi offre del tè freddo. Nonostante avrei voglia della raffinata bevanda, rifiuto gentilmente, non posso lasciargli credere che quella sia una valida alternativa, che il suo gesto possa estinguere il credito ontologico che intercorre tra una passeggera e il suo assistente di volo.

«Ha forse con sé delle benzodiazepine? Non so, delorazepam, clordiazepossido, flunitrazepam, nitrazepam, clorazepato?».

Con mia incredibile sorpresa mi offre di nuovo del tè freddo; proprio in quel momento mi accorgo che la porzione anatomica compresa tra la sua spalla e il suo gomito non fa proprio al caso mio, eccessivamente lunga e scarnita, finirebbe per provocarmi delle piaghe nel sonno.

Non appena l’aereo atterra, chiamo subito la mia referente, la mia balia. Non ci conosciamo, ma lei ha già capito che posso portare rogne, che io, attribuendole un putativo senso materno, potrei non smettere più di domandare, fare i capricci, chiedere assistenza e consolazione. Così cerca di neutralizzarmi.

«Ti basterà una birra, magari troviamo anche della melatonina», dichiara lapidaria, sperando ingenuamente in una mia resa.

«Pensi che io non abbia più volte tentato di ingannare la mia epifisi? Credi davvero che, in vent’anni di insonnia esasperante, io non abbia tentato di escogitare tutti i piani possibili per aggirare le disfunzioni del mio sistema neuroendocrino?»

Non sa bene cosa rispondere, mostra soltanto una minima parte della preoccupazione che nutre. I tempi sono stretti, la tabella di marcia è molto fitta e lei ha l’onere di farla rispettare, l’aereo ha persino tardato, nessuno aveva considerato la voce ricercare sonnifero per scrittrice insonne priva di ricetta. Con grande diplomazia mi elenca i miei impegni istituzionali: «Hai ventisette minuti – anzi, ormai ventisei – per il check-in, disfare la valigia, rinfrescarti, cambiarti e scendere alla reception dove ci aspetterà un autista. Poi abbiamo un briefing con il team che si occupa della comunicazione, quindi un aperitivo con il Console, cui seguirà un’apericena con la Direttrice dell’Istituto di Cultura, un brindisi con il Commissario straordinario, una cena plenaria alla quale saranno coinvolte tutte le autorità che ti ho nominato più il Direttore della Fiera Internazionale del libro di Francoforte, infine un debriefing, sempre con l’ufficio stampa, al quale assisterà il Presidente dell’Associazione Italiana Editori per verificare se avete capito tutto. Dobbiamo prepararvi bene per la conferenza stampa di domani...»

«Prepararvi chi?».

«Come chi? Te e l’altra scrittrice che è stata chiamata a rappresentare l’Italia ospite d’onore 2024 alla Buchmesse».

«Lei forse avrà un sonnifero».

«Ne dubito, è una salutista, è molto appassionata di yoga».

«Ah, che peccato…».

Come a casa

Essere a Francoforte è come essere a casa: l’aereo in ritardo, il bagaglio non arriva, il tassista non accetta la carta di credito, non parla l’inglese e sbuffa pure. C’è solo una cosa a cui occorre stare molto attenti: bisogna rigorosamente camminare sul lato destro del marciapiede, altrimenti ti spediscono subito in galera.

Il check-in va liscio, il briefing meno: scopro di dover tenere un discorso, un discorso vero, insomma, di quelli che prima si scrivono, poi si imparano e infine si espongono. L’altra scrittrice lo aveva messo in conto, probabilmente lo yoga la aiuta a schiarire la mente, così racconta al team le tematiche che intende approfondire.

La ascolto ammirata, considerando i ritardi che si sono irreparabilmente sommati confido che non arriverà il mio turno. Invece, il mio turno arriva.

«E tu di cosa parlerai?».

Mi guardo intorno, ma sono proprio io l’interlocutore.

«Qualcosa dirò, alla fine qualcosa dico sempre».

Alla mia risposta, i componenti del team entrano in uno stato di allarme, sui loro volti compare l’ombra di emozioni variegate che vanno dalla frustrazione al lutto. Mi spiegano che la situazione è delicata, che su di noi ricade un compito importante, quello di far brillare l’editoria italiana di fronte al mercato internazionale, e anche uno sforzo diplomatico di non poco conto: dovremo essere capaci di dire alcune cose senza nominarle, di sproloquiare tenendo insieme la letteratura non finzionale e la finzione, i numerosi fenomeni di ibridazione letteraria, le città e le province, il pluralismo e la censura, i centri e le periferie, l’autobiografia e l’autofiction, Dio e lo Stato, le destre e le sinistre d’Europa.

«Va bene», rispondo, «scriverò un discorso subito dopo l’apericena».

«Seguiranno la cena e il debriefing» mi ricorda la mia balia «ma poi lo scriverai, tanto non hai i sonniferi con te, no?» allude maligna.

Salvezza

È a quel punto che, come nei migliori plot, l’eroina incontra, nel suo viaggio, il guardiano che le farà varcare la soglia. Anzi, i guardiani.

«Come non hai un sonnifero? Poverina…» esordisce l’altra scrittrice frugandosi già nella borsa, «prendi pure il mio, è l’ansiolitico che porto sempre con me in aereo».

Quasi non credo ai miei occhi mentre osservo le mie dita stringersi intorno a un incantevole esemplare di delorazepam.

«Senza sonnifero? Che follia è mai questa!» esulta, con vena teatrale, un componente del team e, svuotando le tasche sopra il tavolo, tira fuori nientemeno che una pastiglia di zolpidem tartrato. Lo guardo con gratitudine e solo in quel momento noto il suo splendido omero.

Intanto, un uomo dotato di un’ulna incantevole si avvicina al nostro tavolo, deve essere un pezzo grosso perché alcuni accennano a un inchino.

«Allora, cosa succede? Il Console ci sta aspettando!» ci rimbrotta ma, non appena il suo sguardo si posa sui farmaci, cadono tutte le sue rimostranze. «Cameriere, cameriere, ci versi da bere!» urla a gran voce, estraendo una boccetta dal taschino. Mentre i nostri bicchieri vengono ricolmati di Gin Tonic, ci somministra delle gocce di clordiazepossido cloridrato, una manna dal cielo.

«E adesso brindiamo!»

«All’Italia!»

«A noi!»

«All’Italia!»

Non ricordo più nulla di quel che è accaduto dopo. Dicono io abbia preso parte alla conferenza stampa e abbia pronunciato tutte le parole che erano presenti nel libro nero.

Nota: ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Anna Giurickovic Dato è un personaggio inventato e non è mai stata a Francoforte, anche perché, se fosse davvero esistita, si sarebbero guardati bene dall’invitarla.

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