- Una delle prima volte che la parola “omosessuale” è comparsa su un giornale italiano è stata una cinquantina di anni fa, sulla Stampa.
- Era il 5 aprile 1972, e il primo movimento di liberazione omosessuale in Italia aveva il suo battesimo del fuoco. Non proprio Stonewall. Il segno era più giocoso. Oggi che la rivista Fuori! compie 50 anni.
- In crisi politica, in debito d’ossigeno con stampatori e distribuzione, la rivista provò a scagliarsi contro la pornografia nuova-merce, lo «spremi-seghe cartaceo», la «reificazione della nostra prassi soggettiva», ma i termini della battaglia erano cambiati completamente.
Una delle prima volte che la parola “omosessuale” è comparsa su un giornale italiano è stata una cinquantina di anni fa, sulla Stampa.
Al Congresso internazionale di sessuologia, a Sanremo, dove si discuteva se l’omosessualità fosse una malattia e come si sarebbe potuta curare, l’inviato del giornale Luciano Curino incontra Angelo Pezzana, gaio libraio torinese che il congresso è venuto a contestarlo. «Dottore, lei è psichiatra?», chiede. «No, io sono omosessuale. Lo scriva». Fino a quel momento «l’amore che non osa pronunciare il suo nome» secondo la poetica definizione di Oscar Wilde, nomi ne aveva già parecchi: invertiti, capovolti, pasolinidi persino.
Senza contare l’infinito lessico dialettale. Tutti insulti. Nella giurisprudenza italiana, al contrario, una parola per dirlo non c’è mai stata, dai tempi del fascismo fino al ddl Zan. Dunque questo gruppetto di omosessuali, lesbiche, trans, tra i venti e i trent’anni, per la prima volta «prende la parola». Letteralmente.
Si riconosce nella sigla FUORI! (lettere maiuscole punto esclamativo) e progetta una rivista il cui numero zero viene diffuso nei parchi e nelle zone di battuage. A Sanremo entra nel salone del casinò tra «le facce da barbagianni, una tonaca e l’altra, una palma e un auto sempre lussuosa» come si legge nella loro cronaca. Si srotolano striscioni: «Psichiatri siamo venuti a curarvi».
Alcuni vengono fermati dalla polizia, che non ci andava con mano leggera. Altri dalla tribuna affrontano i professori: le cure antiomosessualità di allora potevano comprendere elettroshock e coma insulinici. Nella stessa cronaca sarcastico-militante affidata ad Alfredo Cohen apprendiamo che la notte un certo professor Vachter dell’Università di Lovanio era stato «sorpreso sulla passeggiata imperatrice dove si batte». Non si fece mai più vedere.
Guerriglia mediatica
Era il 5 aprile 1972, e il primo movimento di liberazione omosessuale in Italia aveva il suo battesimo del fuoco. Non proprio Stonewall. Il segno era più giocoso. Oggi che la rivista Fuori! compie 50 anni, Carlo Antonelli e il collettivo artistico Francesco Urbano Palazzi con lo stesso giocoso spirito festeggiano tirando fuori dagli archivi i primi tredici numeri usciti tra il 1971-1974 rilegati in copia anastatica dentro una fragorosa copertina arancione, una bomba e la miccia accesa, edizioni Not.
«Non si tratta di una storia di libertà dei corpi, giacché nei secoli tutti hanno trovato il mondo di fare l’amore con chi gli pareva – scrivono nella breve presentazione del volumone – ma di libertà del linguaggio».
Precisamente per questo le pagine di Fuori! strappate all’inesorabile dissolvenza a grigio degli inchiostri sono attraversate da fiammate di guerriglia mediatica, debunking semiologico che appartiene alla pratica di un decennio successivo, ma qui evidentemente ha il suo battesimo.
Gli articoli della Stampa, quelli del famigerato “Specchio dei tempi”, finiscono spesso sotto le ire del collettivo che a Torino ha forte rappresentanza. Titolo: “Giulietta Masina: si può anche lasciare il giardino di Saffo”. Commento: «Perché hai scritto alla Stampa? Hanno sempre gettato il fango sulle nostre cose».
«Non ti ascolteremo mai più Mina». La cantante icona è colpevole di avere usato in un’intervista la parola frocio in senso dispregiativo. Lo scontro aperto di Fuori! con la cultura di massa ha poche o nessuna concessione all’estetica camp, tradizionalmente gaia: Mario Mieli spiega citando Marx che scopo della lotta è la liberazione della sessualità intera dalle catene dell’alienazione e della famiglia.
Il numero tre della rivista si apre con il racconto della visione collettiva di A-Z un fatto come e perché in onda sul programma nazionale della Rai (che poi negli anni diventerà Rai 1), dedicato al «turpe mondo» della prostituzione maschile e messo in onda soltanto alle 22. Dicono che l’omosessualità è un arresto della condizione psicosessuale – sbotta ancora Cohen nel bel mezzo della sbobinatura degli interventi – quindi vuol dire che per gli etero la vita è felice?
Cohen si chiamava D’Aloisio. Era venuto a Torino dall’Abruzzo e insegnava in una scuola (da qui la necessità non soltanto sua di usare uno pseudonimo). Era il compagno di Pezzana, che gestiva la libreria internazionale Hellas a Torino. Nella seconda metà degli anni Settanta dopo alcuni spettacoli di cabaret incontra Giusto Pio e Franco Battiato che arrangiano la sua canzone Valery, poi trasformata per Milva nella celeberrima Alexander Platz.
Era un mondo in cui a venir fuori! ci si contava ancora sulle dita di una mano. Volti pagina e Nanda Pivano – grande amica del collettivo – traduce una poesia di Allen Ginsberg sui vecchi materassi da buttare con le tracce dei vecchi amanti.
In un numero successivo la traduzione della canzone Lady Stardust di «David Bowie cantante omosessuale». Non era proprio così, il legame di Bowie con il Gay lib front inglese era piuttosto tenue, ma il corrispondente della rivista da Londra era Mario Mieli.
Che in un altro fascinoso articolo racconta della contestazione al concorso di Miss mondo 1971, delle feste con David Hockney e le Angry brigade, delle «comuni incasinate senza orario, senza morale, senza soldi».
La questione della “r”
La radicalità marxista (o marxiana come si diceva) di Mieli, 20 anni appena compiuti, travestito per «manifestare contro la polarità dei sessi» richiama uno dei nodi teorici di quei primi anni del movimento. È la questione della “r”. Fronte unitario omosessuale.
Se e quanto dovesse essere rivoluzionario, o nell’orbita del Partito radicale, fu motivo di discussioni e rotture. Non solo. I compagni dei gruppi rivoluzionari erano spesso bersaglio delle invettive di Fuori!, tanto quanto i fascisti.
Che l’atteggiamento – specie a Torino, nella terra promessa della classe operaia – verso i “cupio” fosse il medesimo a destra come a sinistra, perché i problemi veri sono benaltri, non stupisce. Curioso trovare un embrione di politicamente corretto in un articolo contro la «pornolalia» dei compagni che se la prendono contro la «sfiga» e i «discorsi masturbatori», come se ci fosse qualcosa di male nella masturbazione eccetera.
Dopo meno di un anno apparvero in edicola giornali porno dedicati ai «quattro sessi» secondo l’immaginifico sottotitolo di Os (in sostanza agli omosessuali maschi, per cominciare). Di fronte alla caduta improvvisa della censura a metà anni Settanta la reazione di Fuori! (che non pubblicava nessuna foto di nudo) fu feroce e confusa.
In crisi politica, in debito d’ossigeno con stampatori e distribuzione, la rivista provò a scagliarsi contro la pornografia nuova-merce, lo «spremi-seghe cartaceo», la «reificazione della nostra prassi soggettiva», ma i termini della battaglia erano cambiati completamente. Si entrava nella fase terminale della nostra controcultura, il nocciolo duro e non recuperabile di Parco Lambro (dove il banchetto del Fuori! venne rovesciato). Si andò a sbattere contro gli anni Ottanta.
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