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Se ci penso, a parte questi ultimi due fatti, negli anni ho scritto solamente un raccontino il cui protagonista era mio fratello da piccolo, e l’ho descritto per come lo vedevo mentre facevamo delle cose insieme.
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Però, non è che poi di Pietro io mi ricordi tanto; in quei momenti, io guardavo il cane (o guardavo il ghiaccio, o la zappa, o le vipere, o qualunque affare stessimo spericolando). Io e Pietro eravamo un’entità.
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Poi nel 2001 abbiamo preso un pullman con la Fiom e siamo andati a Genova. Avevo la nausea, e un terrore che credevo esistesse soltanto nei sogni; non riuscivo a ritrovare mio fratello, non sapevo se avesse scavalcato, se fosse al di là in mezzo al sangue.
Nella borgata sotto casa nostra c’era un cane nero impestato. Aveva qualcosa del cane lupo, ma era un bastardo. Forse l’aveva incattivito la catena – ma quand’eravamo piccoli io e Pietro, i cani bene o male stavano tutti alla catena, oppure liberi in giro; gli unici che avessero guinzagli erano i cani dei villeggianti milanesi.
Stanare il cane
Da quella borgata passava la scorciatoia per scendere al fiume; le dava il nome una casa-torre in sasso, rimaneggiata nei secoli; attorno, riunite un po’ a corte, aveva altre case più recenti, alcune mezze intonacate, alcune disabitate. La catena del cane scorreva, nell’aia, lungo un cavo di ferro che andava dal muro della casa più in alto a quello di blocchetti della teggia in fondo, a cui era addossata la cuccia – un percorso simile a quello che aveva la Laika nel nostro cortile. Dalla scorciatoia, però, il cane non lo si vedeva, né lo si sentiva: non era uso abbaiarci mentre passavamo, si faceva i suoi; per andare a stuzzicarlo, avresti dovuto deviare dalla tua stradina, entrare in quel cortile privo di cancello per una strettoia muffosa e sempre all’ombra, col fondo di ghiaia ricoperto di gramigna, dove se era estate, ancor più se venivi in salita, sudato, ti prendevano i brividi di freddo, oltre alla premonizione del cane.
Il muro a sinistra di quella strettoia finiva con un angolo stondato, e si apriva sul cortile. Il muro a destra invece continuava e diventava la facciata di una casa, sporca di verderame, ma senza più pergolato né vite. Doveva essere abitata, ma in tutte le volte che ci siamo stati non abbiamo visto nessuno in quel cortile, a parte il cane. Non saprei dire chi ci stesse, ma immagino che fosse un vecchio, per com’erano appoggiate le cose sulla soglia – brocche, bastoni, stivali, per com’erano curate e consumate.
Può darsi che il cane non amasse star sull’uscio: avrebbe potuto, perché la sua catena ci arrivava, ma non me lo ricordo lì davanti; in quel caso, l’avremmo visto già dalla stradina, parimenti il cane avrebbe visto noi, e noi saremmo andati oltre; oppure può darsi che ricordi soltanto le volte in cui era nascosto, e toccava a me e Pietro stanarlo.
Facevamo in questo modo: passavamo lungo la strettoia, lentamente e senza far rumore; arrivati all’angolo del muro ci affacciavamo allo scoperto, per vedere a che punto del cavo fosse agganciata la catena, se il cane fosse accucciato laggiù in fondo o se fosse lì subito dietro; in questo caso, avremmo rinculato: la catena arrivava fino a un certo punto, e il cane, arrabbiato che fosse, poteva inseguirti giusto due o tre metri oltre quell’angolo del muro, dopodiché si strozzava.
Ma se entrando piano piano nel cortile noi due vedevamo che il cane era laggiù stravaccato, accanto alla cuccia, facevamo ancora dei passi in discesa. La prova era avvicinarsi il più possibile. Se la catena era infilata nel buio della cuccia, noi scendevamo ancora un passo o due; poi tiravamo della ghiaia sul tetto, e aspettavamo che uscisse per farci correre dietro. Passato l’angolo eravamo salvi, e il cane, con quella rincorsa, arrivato al limite della sua estensione tirava la catena con il collo, s’alzava da terra e s’impiccava.
Non ci fermavamo a guardarlo da fuori, perché dopo l’eccitazione ci prendeva quel senso un po’ amaro di vergogna al pensiero che chissà stavolta non ci avesse visto il suo padrone, che era un po’ come se ci avesse visto nostra madre. Ma che io sappia, nessuno è mai venuto a lamentarsi.
Rifugiarsi
Fatto sta che una volta, mi sembra che non stessimo salendo su dal fiume ma scendendo, entriamo nel vicolo all’ombra, facciamo un passo, due passi, tre passi: non si muove niente, non si sente niente, non si sentono neanche quei rumori che certe altre volte ti davano un’idea della posizione del cane ancor prima di girare l’angolo e vederlo – il tintinnare leggero degli anelli, il cigolare del gancio lungo il cavo, o lo strusciare lasco di catena sulla ghiaia. Voltiamo attorno al muro, niente; scendiamo nel cortile: la catena sparisce nella cuccia. Camminiamo ancora tre passi, ancora uno, andiamo verso la cuccia, la catena è ancora ferma, non trema nemmeno un pochino, mai stati così vicini. Quando siamo fin quasi alla cuccia, vediamo che la catena, sulla soglia, cade in un modo un po’ strano, mezza arrotolata, e più che altro vediamo che in fondo alla catena c’è il morsetto del guinzaglio, ma attaccato al morsetto, non c’è il cane.
Dio bono oggi è libero, non c’è neanche il tempo e il bisogno di dirlo, perché lo vediamo che viene su dal campo, già un po’ al trotto; ci mettiamo a correre con quanta ce ne abbiamo; solo che il cane ci corre dietro, e non si ferma all’angolo del muro, non si ferma neanche fuori del suo vicolo, ci insegue anche nella stradina, che abbiamo preso in salita: un po’ perché è la direzione di casa, un po’ perché, con qualunque bestia, d’istinto preferisci essere in alto e lei in basso (è per questo, ad esempio, che fa così impressione che le vipere figlino sugli alberi, l’idea che i viperini gonfi di veleno possano caderti addosso da un ramo e morderti sul collo; e a me e Pietro un giorno è anche successo, nel bosco di Riccovolto: non che ci siano caduti sul collo, ma a un metro di distanza, mentre sedevamo a mangiarci un panino, con la gerla dei funghi in mezzo ai piedi – sul terreno morbido ma con poche foglie abbiamo sentito Tt-tup!, un tonfetto disunito, ed erano due vipere che son strisciate via).
Fuori da quella borgata, la stradina spiana e diventata carrabile, col fondo di cocci di piastrelle messi a riempire i solchi di trattore, e nella striscia in mezzo piena di camomilla noi corriamo, col cane che ormai ci è arrivato nel culo e considera, tocca scoprire, suo territorio anche quello, almeno fino alla curva, dove a sinistra riattacca a salire fin su a casa nostra, mentre di fronte ha il cancello del campo di Ettore, che è aperto: è un cancello di legno, che si ferma legandolo a un palo con un laccio di corda da fieno. Io e Pietro non avremmo avuto il tempo per aprirlo, se fosse stato chiuso, ma abbiamo preciso il tempo per chiuderlo, appena passati di là. Saliamo ancora per il campo, prima di voltarci: il cane abbaia un po’, dietro il cancello, e torna a casa.
Gioco e subbuglio
Poco sotto la borgata di quel cane c’era un laghetto per l’irrigazione. Era circondato da una scarpata alta, abbastanza ripida, su cui crescevano aceri e biancospini, soffocati d’edera e vedrezze; qualche salice sull’acqua, che d’estate era bassa e stagnante; ci andavamo a guardare le rane, e gli insetti pattinatori, ma più che altro per guardare l’acqua. D’inverno il laghetto gelava, e sul ghiaccio si adagiavano le foglie, e poi la neve. Noi scendevamo dentro la scarpata, lasciavamo il bordo, e giocavamo a camminare sopra il ghiaccio, partendo da una sponda per arrivare all’altra. Né mia madre né mio padre sapevano dove fossimo, potevamo essere ovunque, con il bob o senza: sopra Corte, a Casa del Monte, al fosso della Ruota, in qualche altro campo con altri bambini, comunque i miei non lo sapevano; se il ghiaccio si fosse aperto e mio fratello fosse finito dentro, ti saluto.
O quante volte ci siamo arrampicati su una roccia e l’appiglio a cui ci tenevamo s’è staccato, sbriciolato, e siamo caduti di schiena tra i sassi appuntiti, senza beccarne uno, siamo caduti sempre sulle foglie.
O quando il nonno stava giù a Scandiano, e accanto alla casa e alla stalla c’era quel rottamaio favoloso di trattori d’ogni tempo e marca, di botti e di fusti, e bindelli, portiere, sgadore, gabbie da uccelli, ranghinatori, per tutta l’estensione di campo che non fosse vigna non c’era un metro libero da robe raccattate e mai buttate, in attesa d’essere disfatte o rimontate; ci facevano il nido le galline, io e Pietro giocavamo a nascondino come in un disegno di Piranesi, per tutto il giorno di Natale, rincorrendoci in mezzo alle punte di ferro sporgenti: la disposizione dei rottami smetteva, una volta imparata, d’essere casuale, diventava naturale e inamovibile, come il tracciato di una pista; tanto che se ci capitava, il Natale dopo, di scoprire che il nonno aveva spostato qualcosa, ci restavamo male, come se il mondo andasse ripensato.
Sul limite di quel rottamaio c’erano gli alveari delle api; un Natale, subito dopo pranzo, sconfortati per la noia e il non aver trovato posto a carte, eravamo andati a tirare dei sassi contro le pareti delle arnie, finché lo sciame non s’era svegliato, infuriato, e ci era volato dietro – e mentre scappavamo, Pietro era inciampato, era caduto per terra a pancia in giù, le api l’avevan sorvolato; io avevo continuato a correre e le api mi avevano raggiunto, e mi avevano riempito in faccia, sul collo, fra i capelli, e fin sotto la maglia, sulle braccia e sul torace. Avevo passato tutto il resto del Natale sul divano in casa della nonna, con il ghiaccio, gonfio e sgridato, e pazienza. Ma Pietro, che era caduto in terra ed era allergico, non aveva preso neanche una puntura.
E un’altra volta per sbaglio, nella vigna, gli ho dato una zappata in testa. Io avevo nove anni, Pietro quattro. Mi è venuto sotto che era già partito il colpo. Siamo saliti dal campo e mia madre si è messa a lavargli la testa insanguinata sotto il rubinetto del trogo, la ferita non smetteva di fiottare, e lei continuava a dirmi: «Non è niente». L’ha portato al pronto soccorso, e l’hanno ricucito.
Se ci penso, a parte questi ultimi due fatti, che ho usato in maniere differenti, negli anni ho scritto solamente un raccontino il cui protagonista era mio fratello da piccolo, e l’ho descritto per come lo vedevo mentre facevamo delle cose insieme – per quel che ricordavo di aver visto: la forma delle sue guance, la carnagione un po’ olivastra, al contrario della mia (a lui il sole infatti non fa male); i suoi capelli ricci e quasi biondi, e poi solo castani, e poi neanche più ricci. Però, adesso che ci penso, quando l’ho descritto l’ho inventato: non è che poi di Pietro io mi ricordi tanto; in quei momenti, io guardavo il cane (o guardavo il ghiaccio, o la zappa, o le vipere, o qualunque affare stessimo spericolando). Anche lui guardava il cane. Io e Pietro eravamo un’entità. Nel gioco, nella corsa, nel subbuglio, non mi ponevo il problema di lui come cosa divisa da me. Non me lo sono mai posto, mi sembra. Con i cinque anni scarsi che c’erano e ci sono fra me e lui, tantomeno mi sono angustiato per qualche sorta di responsabilità.
Cadere a Genova
Poi nel 2001 abbiamo preso un pullman con la Fiom e siamo andati a Genova, e a un certo punto ci siamo trovati in uno slargo asfaltato, separato dalla strada da una striscia di oleandri in vaso; le camionette della polizia sgasavano in mezzo alla gente che scappava, nell’orgasmo di poter schiacciare tutti – alcuni si buttavano nel mare, alcuni grondavano sangue, alcuni di noi sono finiti contro una cancellata di ferro, pressati come bestie all’imbocco di un recinto, e i poliziotti saltavano giù dalle camionette e andavano a pestarli; mio fratello, insieme a tanti altri, stava provando ad arrampicarsi e scavalcare, e la cancellata traballava, poteva cedere e travolgerli; gli ultimi se ne sono accorti, allora sono ridiscesi, a tenerla ferma, per salvare gli altri che salivano. In quel momento ho perso di vista Pietro.
Nella recinzione si è aperta una porta: qualcuno da dentro ci stava salvando. Siamo entrati in tanti, per delle scalette, in un giardino. Quelli rimasti al di là erano a terra, aggrappati al ferro della cancellata, e sanguinavano, e urlavano, e i poliziotti continuavano a picchiare.
Il posto in cui ci eravamo rifugiati era una collinetta di palmizi e fichi d’india, sul retro di una villa signorile. Non c’era indizio di chi ci avesse aperto; era abbastanza spazioso da starci in diverse decine, sull’erba secca, all’ombra dei cespugli di nocciolo. Gli elicotteri ci sorvolavano. Su quella collinetta, come per le mandrie, la nostra fortuna era essere in tanti; fossimo stati cinque o sei, sarebbero venuti su di corsa. Avevo la nausea, e un terrore che credevo esistesse soltanto nei sogni; non riuscivo a ritrovare mio fratello, non sapevo se avesse scavalcato, se fosse al di là in mezzo al sangue; ho provato a chiamarlo, ma i telefoni erano saltati, e pensavo Oddio, l’ho portato a morire, mamma, te l’ho portato a morire.
Quando è arrivato e l’ho rivisto, lì nel giardino con me, ho capito che non c’era con la testa; mi riconosceva, ma non ragionava, aveva come il cervello sospeso – si disperava per i suoi occhialini da nuoto antilacrimogeni, li cercava per terra, coinvolgeva degli altri ragazzi, tutti a cercare con lui; gli occhialini, alla fine, ce li aveva rialzati sulla fronte. L’ho tenuto lì con me, piano piano si è ripreso. Mi ha detto che dal mare gli sparavano i proiettili di gomma; mi ha detto che con lui c’era un ragazzo curdo che gli chiedeva di telefonare, a cenni – non sapeva una parola di inglese o di italiano, era senza documenti, e se a quest’ora l’avevano preso poteva finir morto e nessuno saperlo mai più.
Dall’altra parte della collinetta, due sentierini scendevano alla strada. Un ragazzo si è spinto fin là ed è tornato dicendo che la situazione sembrava migliorata, e che dalla strada la polizia ci intimava di scendere, perché stavamo facendo violazione di domicilio, tutti quanti, e se non fossimo scesi da soli, sarebbero stati costretti a venirci a prendere. Gridavano: «Non c’è da aver paura, la strada adesso è pulita». Ma gli unici di cui avessimo paura erano loro. Dall’alto del giardino li abbiam visti ritornare indietro: marciavano battendo i manganelli sugli scudi, i piedi sulla terra e urlando a tempo; il loro rumore si è fatto lontano. Allora noi siamo scesi, con le mani alzate, sulla strada sgombra, e abbiamo cominciato a camminare nella direzione opposta, verso il ritorno, verso il pullman; non appena siamo stati tutti in strada, ci hanno caricato, e siamo scappati ancora, cercando di tenerci per mano, ma non ci siamo riusciti, e correvamo piangendo e bestemmiando per la disperazione, e ho ricominciato a veder spruzzare il sangue.
Poi è sembrato che fossero sazi, e l’ultima cosa che so dai miei ricordi è che siamo andati, pensando che non avrebbe avuto fine, verso una chiesa in marmo bianco e nero, sul bordo del mare, e là ci siamo stesi sul sagrato, all’ombra, fra i corpi sanguinanti dice Pietro, ma io di quei corpi non vedo più niente, è il mio turno, non mi accorgo più di niente; è mio fratello adesso che vede e mi tiene, e per le strade devastate mi riaccompagna verso casa.
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