- Geert Lovink è tra i principali teorici europei delle culture di rete e dirige lo Institute for Network Cultures di Amsterdam. Con la sua critica dei social media ha descritto già dieci anni fa la social-trappola che ora è sotto gli occhi di tutti. Oggi sono in tanti a criticare internet, ma né i numerosi scandali, né il tecno-cinismo dilagante, hanno portato a un cambio di rotta.
- Anzi, la situazione peggiora: Lovink parla della “Zoom fatigue”, di quanto le piattaforme siano fatte per lasciarci esausti, e ragiona sulle prospettive future. «L’incontro tra Draghi e Zuckerberg sul Metaverso? Bisognerebbe protestare», dice.
- In questa intervista, e in concomitanza con l’uscita del nuovo libro “Stuck on the platform” che arriverà in edizione italiana entro fine anno, Lovink guarda oltre: se si vuole evitare il disastro totale, non basta regolare le piattaforme, anzi «è una falsa illusione». Bisogna disegnare un’alternativa, partendo da alcuni valori. Per esempio, la lentezza, e un’infrastruttura pubblica.
Regolare le piattaforme come prova a fare Bruxelles è solo una falsa illusione, dice Geert Lovink. Non basta più: siamo già troppo oltre. «Credere che Mark Zuckerberg possa farsi intimorire per una multa di qualche miliardo è un errore capitale». A dieci anni di distanza dalla pubblicazione della sua fondamentale critica dei social media, Ossessioni collettive, il fondatore dello Institute of Network Cultures di Amsterdam resta uno dei più radicali e profetici studiosi della rete. La sua analisi sulla social-trappola è più attuale che mai: siamo in preda a una narcosi collettiva, ossessionati dal desiderio compulsivo di esibire le nostre vite. Che finiscono sotto controllo e vengono trasformate in profitto: ecco perché viviamo in un «Medioevo felice». Su tutto questo, Lovink ci ha messi in guardia da tempo. Ma qualcosa da aggiungere oggi c’è, ed è raccolto in parte nel suo nuovo libro Stuck on the Platform. Reclaiming the Internet, che arriverà in edizione italiana entro fine anno. «Quando lo ho scritto mancava ancora un tassello, la guerra. Ma c’erano già stati Brexit, Trump e la pandemia». Per Lovink la crisi della rete è una delle dimensioni di una più generale deriva verso il disastro: lui parla di «collassologia». Ma un’alternativa va cercata, costruita e immaginata. Ci ragiona davanti a una scrivania, a Roma. La sua teoria è che bisogna sganciarsi dalle piattaforme: «Deplatform the platforms». Ha anche un elenco di valori ai quali ispirarsi, tra i quali la lentezza, per disinnescare il mito dell’efficienza, e il pubblico, in alternativa alle piattaforme orientate al profitto. Ma da quali azioni concrete cominciare? «Dalle proteste quando il vostro premier Mario Draghi stringe accordi con Zuckerberg per il metaverso».
Zoom, lo stress e il controllo
«Tra gli sviluppi recenti più rilevanti c’è quella che io chiamo “la zoom fatigue”, che inizia con lo shock della pandemia, poi però continua». La “fatigue” è stanchezza. La “zoom fatigue” è quel senso di abbattimento e spossatezza che si verifica «quando la riunione virtuale diventa il contesto dominante sia sul lavoro che nella vita privata, costruendoci attorno una prigione virtuale». Lovink è arrivato a definire «la anatomia della zoom fatigue» dopo aver raccolto una lunga serie di evidenze e di testimonianze del tipo: «Sono esausto». Nel 2019, in Nichilismo digitale, lo studioso aveva già denunciato il «nichilismo da piattaforma», e cioè il fatto che le piattaforme sono congegnate «sin dal codice» in modo tale da lasciarci spompati e depressi. Estraggono da noi il più possibile – a cominciare dai dati – e ci inducono alla rassegnazione. Il paradigma del “capitalismo estrattivo” spiega non solo come è stato depredato l’ambiente, ad esempio, ma anche le nostre menti. «Ciò che è avvenuto durante la pandemia con le piattaforme come Zoom rappresenta un ulteriore tradimento della promessa di un’internet che favorisce la partecipazione. L’ingegnere promette interazione, ma il design non porta avanti la promessa. Basti pensare a quando i ragazzi spengono la fotocamera durante una lezione online e si mettono a scrollare i social mentre noi facciamo lezione: è sempre più difficile restare concentrati a lungo». Inoltre siamo costantemente sorvegliati, in quello che Lovink chiama «lo Zoomopticon». L’analisi appena pubblicata da Human Rights Watch conferma queste preoccupazioni: su 164 dispositivi usati per l’educazione digitale in 49 paesi durante la pandemia per garantire la continuità delle lezioni ai bambini, l’89 per cento «li sorvegliava a loro insaputa e senza il consenso dei genitori».
Il metaverso che verrà
In confronto allo stress da videochiamata, per Lovink il metaverso «può apparire persino una risposta: la “zoom fatigue” stanca la vista ed è provocata anche dalla mancanza di interazione. Facebook lo sa bene, e ora ci propone qualcosa che coinvolge tutto il nostro corpo, così da trattenerci nel virtuale ancor di più». L’idea di un mondo digitale parallelo, coniata nella letteratura cyberpunk trent’anni fa, viene ora plasmata da Big Tech, con Zuckerberg che rinomina Facebook “Meta” e lavora a questa realtà virtuale immersiva. Lovink dice di non essere particolarmente preoccupato dal metaverso nel quale Zuckerberg punta a farci trasferire. «Dopotutto quel modello di business è lo stesso di oggi: estrarre dati e vendere pubblicità a dispetto della privacy». Ma il metaverso eleva quel modello a potenza, visto che mira a diventare il meta-contenitore, gestito da privati, di ogni nostra infrastruttura e interazione sociale. Come lo stesso Lovink dice, con le piattaforme dei social network non basta pretendere qualche correttivo, perché i problemi sono strutturali, anzi infrastrutturali: le reti sociali sono gestite da monopolisti. «Venti anni fa, Clay Shirky ha iniziato a parlare delle “leggi di potere” e ha delineato il network effect: significa che in una rete solo il nodo centrale cresce sempre di più. Ma fino a che punto è più grande? Ci si sarebbe potuti aspettare un network da 5mila persone, un’altra comunità più grande da 10mila. Invece oggi il “nodo centrale” arriva a essere 100mila volte più grande degli altri». Facebook, più che un social, è un colosso. Ecco perché «regolare le piattaforme, o pensare di rimpiazzarle con start up europee che non fanno che riprodurre il modello già visto, non è la soluzione: l’unica alternativa europea sta in una infrastruttura pubblica europea».
Il ruolo dei governi (e di Draghi)
Il paradosso è che al momento, anche quando le soluzioni pubbliche ci sono, non vengono scelte: «In Olanda, al momento della crisi pandemica, oltre ai prodotti come Zoom o Teams, avremmo avuto l’opportunità di usare un’infrastruttura pubblica, gratis e open source. Ma quando le aziende hanno proposto i loro sistemi, non c’è stato il coraggio di rifiutarsi». Mentre Lovink è a Roma, si è da poco tenuto nella capitale, a inizio maggio, l’incontro tra il premier italiano e Zuckerberg. Obiettivo dichiarato: portare l’Italia nel metaverso; cosa si intenda esattamente, all’opinione pubblica non è stato comunicato. Si può intuire la complessità della questione dal fatto che ci sono amministratori delegati che parlano del metaverso come «luogo ideale per la formazione sulla sanità digitale», arrivando così a intrecciare i fondi pubblici del Pnrr con l’interesse (privato) di Zuckerberg a trasferire da lui quel che oggi è sfera pubblica. Davvero davanti a questo scenario Lovink non è preoccupato? «Secondo me Zuckerberg pensa a una élite globale, alla quale offrire spazi per gli incontri di business: vuole “gamificare” il mondo dirigenziale, e agli altri comuni mortali riserva l’entertainment». Ma l’ipotesi che anche per il welfare e le interazioni collettive dovremo affidarci a una infrastruttura privata non lo lascia indifferente. «Riguardo a questo incontro tra Draghi e Zuckerberg sul Metaverso, bisognerebbe proprio protestare».
Quale critica?
«Nonostante i ripetuti scandali abbiano messo a nudo il lato oscuro dei social media, non abbiamo visto cambiamenti sostanziali, anzi: stiamo sempre più su internet». Geert Lovink ci aveva messi in guardia su quel lato oscuro ancora prima che Edward Snowden svelasse la sorveglianza di massa, e assai prima dello scandalo Cambridge Analytica. Ma come lui stesso sottolinea, sapere tutto, o quasi, non ha cambiato nulla, o quasi. Non a caso chiama il suo nuovo lavoro «un libro della disperazione». Ormai l’approccio critico della rete è diventato mainstream, e al contempo la critica è diventata impotente: «Ha un impatto estremamente limitato. Manca una roadmap politica su come cambiare l’architettura di internet». Negli anni Novanta, quando sarebbe stato ancora possibile prevenire le derive attuali, «la critica di internet è stata resa impraticabile da una cultura dell’ottimismo a ogni costo: ogni contributo doveva essere positivo; se criticavi eri un perdente, un molestatore, un bot». Oggi anche gli ex tecno-entusiasti della Silicon Valley si sono convertiti a tecno-cinici, «assistiamo persino a un criti-hype», dice Lovink alludendo a casi letterari come Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff. Ma tutto ciò avviene purché la critica resti senza conseguenza: in realtà «le piattaforme disegnano il dibattito in modo che l’oppositore diventi non un avversario ma un nemico da zittire».
Il disastro e l’alternativa
Nel corso degli anni «il network, la rete, si è estinta, ed è prevalsa la piattaforma». Alla logica della rete, intesa come decentralizzata, si sta sostituendo «quella della mandria, del gregge». Requiem for the Network è il titolo di uno dei capitoli del nuovo libro. La trasformazione delle nostre vite in dati, «la datafication è imminente, questo è certo», ma dove ci porterà? «Nella situazione attuale, le piattaforme non solo monopolizzano i mercati ma gli danno forma, e internet sta accelerando le disuguaglianze sociali ed economiche. Il potere social è sia depressivo che repressivo». Lovink spinge l’analisi fino alle estreme conseguenze: il disastro. Conia la “collassologia”. «C’è una crisi generale, e quella di internet è solo una parte, non la più complessa se si pensa ad altre come la crisi climatica». La letteratura recente, il «cybernichilismo che ha rimpiazzato il cyberidealismo», non aiuta a «smantellare il sistema della Silicon Valley perché non dà alternative», dice Lovink. E se neppure regolare le piattaforme basta, come fare quindi? Come «prevenire» il disastro? Lo studioso non solo non usa Facebook, ma ha promosso anni fa – in un incrocio di attivismo e performance artistica – le feste di addio al social zuckerberghiano. Tuttora predica l’esodo di massa dalle piattaforme, e dice pure che «bisogna sabotare l’idea che il technology-first sia qualcosa di inevitabile». La “politica del rifiuto”, così la chiama. Spera poi in esperienze alternative, basate su valori condivisi, così da sfuggire al controllo di Big Tech. Quali valori?Slow, less, public. Piano, di meno, pubblico. «Bisogna svincolarsi dall’idea che rapidità ed efficienza siano sempre desiderabili»: ciò spiega la lentezza. «Serve anche una agenda anti-scala», dove per scala si intende economia di scala, massimizzazione, crescita a dismisura; anche dei profitti, e infatti il terzo valore è «pubblico: un social media che raccoglie miliardi di persone non può essere orientato al profitto». Serve un’infrastruttura pubblica. L’ultimo valore è decoy, ésca: «Progetti che infiltrino le piattaforme e aiutino gli utenti a uscirne». Questo, più che un valore, è una tattica; Lovink è il teorico dei media tattici come strumento di protesta.
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