Immaginate di avere da poco superato i vent’anni e di prendere coscienza di quanto il mondo intorno a voi sia radicalmente diverso da quello della generazione che vi ha preceduto (i vostri genitori).

Di come quelli che erano i loro valori, le loro certezze si stiano sgretolando davanti ai vostri occhi: il posto di lavoro fisso ben retribuito è ormai un miraggio, la fede verso le grandi religioni vacilla, la fiducia verso i partiti politici è crollata, persino i prodotti delle tradizioni locali vengono progressivamente sostituiti da prodotti dell’economia globale, venduti in giganteschi e anonimi centri commerciali. E, oltre a tutto ciò, vi rendete conto che la vostra generazione non ha neppure un aggettivo, un nome che la definisca. Che ancora non ci ha pensato nessuno, o forse neppure si è preoccupato di farlo.

È a quel punto che uno scrittore canadese trentenne pubblica un romanzo che racconta nel dettaglio lo spaesamento morale, ideologico e sentimentale che state vivendo e vi attribuisce finalmente un nome.

Per la verità è solo una lettera, che peraltro indica proprio l’indefinitezza e l’inclassificabilità di tutto questo: una X. Appare quasi come un paradosso e invece si rivela l’intuizione giusta. Non solo il libro diventa un successo globale, non solo i giovani lettori di tutto il pianeta vi si identificano, ma i giornalisti, i sociologi, gli autori tv e gli analisti abbracciano in pieno il termine.

Ora che la generazione X ha un nome (e un ritratto fedele), esplode sui media: articoli, trasmissioni televisive, film, saggi… Il termine viene utilizzato ovunque e risulta talmente efficace che persino le categorizzazioni successive ne confermano la validità, parlando a seguire di generazione Y e Z.

Un romanzo profetico 

Quando nel 1991 Douglas Coupland pubblica Generazione X. Storie per una cultura accelerata non ha idea dell’impatto che il testo avrà a livello globale.

In verità, gli è stato commissionato un saggio che provi a definire l’attuale popolazione intorno ai 25 anni, ma in fase di scrittura l’autore intuisce che la forma narrativa può essere più efficace, e così concepisce un romanzo la cui struttura sembra fare riferimento ai classici medievali più che alla fiction contemporanea: la trama è costruita attorno a tre ragazzi che si raccontano storie, un espediente che ricorda il Decamerone di Boccaccio o i Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucher.

Andy, Dag e Claire, i protagonisti del libro, sono fuggiti dalle grandi metropoli americane per rifugiarsi nel deserto nei dintorni di Palm Springs in California, un non-luogo senza clima e senza classe media.

Come esploratori di un pianeta abbandonato, nei racconti che si scambiano fra loro, analizzano i detriti della società che li circonda, inframmezzandoli con ricordi, speranze, fantasie e sogni, cercando di dare un senso a una realtà che appare frammentata e dispersiva. La loro è un’esigenza tanto di verità quanto di sopravvivenza. Come dichiara Claire nel finale del primo capitolo: « O le nostre vite diventano storie, o non c’è modo di riuscire a finirle ».

Ma la forza del romanzo non si esaurisce nella sua trama. Con un’altra brillante invenzione, Coupland accompagna al testo una serie di materiali extra-narrativi, composti da fumetti, slogan, illustrazioni e neologismi.

È proprio grazie alle definizioni delle decine di questi nuovi termini che l’impatto culturale del libro si fa enorme. Espressioni come “McJob”, “ground zero mentale” e “overdose culturale” sono entrate nel linguaggio comune in America, al punto che quasi nessuno oggi ricorda che la loro origine risalga a un romanzo.

Sotto questo aspetto Douglas Coupland è andato ben oltre al suo ruolo di interprete del contemporaneo, mostrando doti quasi profetiche, individuando termini che nel tempo si sono rivelati sempre più appropriati.

L’overdose culturale a cui faceva riferimento nel 1991, per esempio, era quella di un individuo assalito da troppi stimoli, in un contesto storico nel quale i canali televisivi erano passati da dieci a cinquanta. Oggi, nell’èra di internet, la definizione è infinitamente più vera e spaventosa. Anche il sottotitolo del romanzo (Storie per una cultura accelerata) rappresentava una profezia, riconoscendo una frenesia di produzione di contenuti che non ha fatto altro che aumentare in maniera vertiginosa nei decenni a venire.

L’autore stesso ha dovuto riconoscere che le caratteristiche che attribuiva alla generazione X si sono poi rivelate corrette, in forma più accentuata, anche per le successive e che i media non hanno fatto altro che perpetrarle. In un’intervista del 2014 alla rivista Forbes ha dichiarato: « Tutto quello che veniva detto sugli X adesso lo dicono dei millennials. Ma proprio tutto ».

Un autore poliedrico

Douglas Coupland (foto Wikimedia)

“Ritratto generazionale”, “romanzo che definisce un’epoca”, “caso letterario mondiale” o “fenomeno globale” sono spesso formule che in editoria vengono utilizzate con generosa e talvolta ingiustificata frequenza, ma nel caso di Generazione X si tratta di incontestabili verità.

Sono rari i romanzi in grado di fotografare un’èra e lasciarne una traccia indelebile, come è avvenuto per Sulla strada di Jack Kerouac o per Il giovane Holden di J.D. Salinger. Ancora più unico è il caso di un libro che non solo descrive una generazione ma addirittura la battezza.

Un risultato simile poteva rappresentare un’eredità troppo pesante per l’autore, un’etichetta indelebile che lo avrebbe marchiato a vita, come quegli attori rimasti intrappolati per sempre nell’immaginario collettivo nel ruolo di un supereroe o di un agente segreto.

Per sfuggire a un simile rischio Douglas Coupland ha cominciato molto presto a prendere le distanze dalla duplice figura di icona e interprete generazionale che i media gli avevano immediatamente incollato addosso, dedicandosi a narrazioni di altro genere e arrivando ad annunciare già nel 1995: « La Generazione X è morta ».

Quasi a riprova di questo bisogno di affrancarsi, si è lanciato in una carriera ad ampio spettro, con una produzione persino difficile da riassumere. Ha pubblicato svariati romanzi, sempre caratterizzati da un’acuta visione della realtà contemporanea e da una prospettiva totalmente originale, basti citare Microservi (ambientato fra i dipendenti della Microsoft), Fidanzata in coma (infarcito di citazioni subliminali tratte dalle canzoni degli Smiths), JPod (su un gruppo di programmatori di videogiochi), Tutte le famiglie sono psicotiche (con una nonna sieropositiva come protagonista) o Player One (su cinque viaggiatori estranei barricati nel ristorante di un aeroporto durante un cataclisma).

Alla produzione narrativa ha affiancato una variegata attività saggistica, con una dozzina di testi, fra i quali una biografia sul filosofo Marshall McLuhan e un reportage dall’interno dei laboratori del gigante delle telecomunicazioni Alcatel-Lucent.

Si è cimentato anche come sceneggiatore, e si è concesso la bizzarria di dedicare alcune opere a specifiche comunità locali, come il volume Souvenir of Canada, che mirava a spiegare la vera identità dei canadesi ai canadesi stessi, o il romanzo God Hates Japan, scritto solo per il mercato giapponese.

Non solo: a partire dal 2000 Coupland ha dato vita a una seconda carriera professionale come poliedrico artista visivo.

Dimenticato 

Oggi Douglas Coupland è un artista di statura globale, i cui orizzonti spaziano dalla letteratura, al cinema, al mercato dell’arte internazionale. In Italia, un po’ inspiegabilmente, non ha mai goduto di un grande popolarità, rimanendo in qualche modo relegato al ruolo di autore di culto e non incontrando il successo commerciale che ha ottenuto altrove.

La sua vicenda editoriale nel nostro paese è inoltre particolarmente anomala, essendo forse lo scrittore straniero che ha cambiato più case editrici (Leonardo, Mondadori, Corbaccio, Frassinelli, Tropea, Feltrinelli, Isbn…), in una girandola di collocazioni che potrebbe aver disorientato il pubblico.

Per un mercato tradizionalista come il nostro, questo involontario nomadismo da un editore a un altro potrebbe anche essere letto come la prova ulteriore dell’estrema originalità e dell’inclassificabilità di un autore che ogni volta rinnova sé stesso, tentando strade sempre diverse e raccontando nuove realtà prima di chiunque altro.

Noi di Accento siamo particolarmente orgogliosi di poter riportare in libreria questo romanzo imprescindibile e di annunciare la pubblicazione a breve anche dell’ultima opera letteraria di Coupland, una raccolta di sessanta fulminanti racconti, rimasta finora inedita in Italia.

La domanda

L’ineluttabile domanda finale che viene da porsi però è la seguente: come è invecchiato questo Generazione X? Se al momento della sua uscita era stato in grado di folgorare tutti i ventenni, che effetto farà rileggerlo a oltre trent’anni di distanza? E cosa avrà da dire ai giovani lettori odierni?

In verità, il tempo è stato meno crudele con questo testo di quanto si potrebbe pensare. E non tanto perché le sue definizioni continuano a essere efficaci, perché le sue profezie si sono avverate sistematicamente e perché l’anonima lettera X continua a marcare un’epoca, ma perché è difficile, anzi impossibile, non provare affetto e tenerezza per Andy, Dag e Claire davanti alle sfide che l’età adulta sta per porre loro. Con le loro fragilità e la loro complicità, continuano a essere personaggi memorabili.

Ma soprattutto, a trent’anni di distanza, Generazione X parla ancora ai lettori perché il bisogno di raccontarsi storie travalica tanto la condizione dei protagonisti quanto la loro famigerata generazione: è un’esigenza umana fondamentale in ogni tempo.

E questa è l’eredità più significativa e profonda che questo splendido libro, in bilico tra futuro e medioevo, ci porta in dono ancora oggi.


Il testo è un estratto della prefazione di Matteo B. Bianchi a Douglas Coupland, Generazione X, traduzione aggiornata a cura di Marco Pensante, Accento Edizioni. 

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