Il festival valorizza una storia di donne, ma non Parthenope di Sorrentino o lo splendido Emilia Pérez (che almeno ha racimolato due premi, tra cui quello di miglior attrice per la meravigliosa Karla Sofìa Gascon). Il dissidente iraniano Mohammed Rasoulof forse avrebbe meritato più attenzione
Cosa potevamo aspettarci da Greta Gerwig, la regista più sopravvalutata (a suon di incassi) del pianeta, chiamata a presiedere la giuria di Cannes? Barbie, capofila del femminismo da salotto, ha premiato il cinema americano indie, le donne e le storie di donne.
Non però di donne viste con l’occhio maschile di Paolo Sorrentino, che infatti non è stato considerato. Emilia Pérez, la mia Palma del cuore – che è anche il film più gratificante della combriccola – se non altro è stato il solo a racimolare due premi: il Prix du Jury a Jacques Audiard e quello per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista, Karla Sofìa Gascon, meravigliosa attrice transgender, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez.
Sean Baker, Palma d’oro per Anora, sostiene di film in film che i lavoratori del sesso sono parte integrante del nuovo proletariato, e a loro ha dedicato un trionfo largamente inatteso. I suoi antieroi li chiama hustlers, letteralmente persone che si arrabattano per campare. In gergo vale per i truffatori come per le prostitute.
Anora, la sua Cenerentola a luci rosse, non ha la ridicola botta di… fortuna di Pretty Woman e quando il rampollo svitato di un oligarca la sposa per capriccio non sa che chi nasce perdente solo tra altri perdenti può trovare conforto. È troppo lungo, ma abbastanza sensuale e concitato per funzionare in sala.
Le registe
Regista donna e storia all-women per il Gran Premio della Giuria, All we imagine as light di Payal Kapadia, giovane regista indiana che viene dal documentario e ne conserva lo sguardo nella finzione. Ma nell’insieme è un film convenzionale di cuori simmetricamente spezzati in una Mumbai caotica e ostile.
Gerwig e soci hanno premiato due registe su quattro in concorso, ignorando la più aureolata di tutte, Andrea Arnold con la sua fiaba surreale, Bird. C’è chi ha tremato (o tifato) per un bis di Titane, la delirante Palma d’oro del 2021.
Il body-horror femminista con finale catartico-splatter di Coralie Fargeat, The Substance, faceva al caso, ma è stato premiato solo per la sceneggiatura. L’asservimento delle donne all’imperativo maschile giovane-bella-e-chiappesode non è un tema nuovissimo ma è sempre il benvenuto.
Un riscatto per Kinds of Kindness
Il povero Francis Ford Coppola dello spericolato delirio Megalopolis è stato chiamato sul palco solo per far compagnia all’amico e pupillo George Lucas perché la regia doveva andare a Miguel Gòmez per Grand Tour, che è il film meno originale mai fatto dall’autore portoghese.
La comparsata mi è sembrata irrispettosa e umiliante per un glorioso ottantacinquenne in guerra contro la pensione. Su Jesse Plemons miglior attore invece niente da dire. È un’antistar defilata che lascia il segno su tutto quello che tocca, un volto senza qualità che si mimetizza con i personaggi.
E la sua Palma ha riscattato l’humour noir di uno Yorgos Lanthimos fuori serie da un coro di critiche malvolenti. Se non pretendi che i registi facciano sempre lo stesso film, Kinds of Kindness è una vera chicca.
Poca politica
Non sono più tempi da Palme politiche, sono memorie cannesi del secolo scorso. Per Mohammed Rasoulof, protagonista di una tormentata fuga dall’Iran a piedi e senza documenti che ha calamitato i riflettori nelle ultime 48 ore di festival, si è congegnato un Premio Speciale della Giuria senza infamia né lode.
Non che The seed of the sacred fig sia un film capitale, ma le piazze martoriate del movimento Donna, Vita, Libertà, nelle riprese coi cellulari che hanno fatto storia, non possono lasciare indifferenti. Nel 1997 Nanni Moretti da capo-giurato impose, letteralmente, la Palma d’oro a un altro grande iraniano dissidente, Abbas Kiarostami. Greta Gerwig non è Nanni Moretti.
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