È passato più di mezzo secolo da quando Francesco Rosi fu denunciato per vilipendio dell’esercito e attaccato pubblicamente dal generale De Lorenzo – l’architetto delle schedature di massa del Sifar, ai tempi del film in transito dalle file monarchiche al Movimento sociale italiano – con larga eco di stampa e di tv pubblica, come teneva a precisare il regista.

Sotto accusa era il suo Uomini contro, che in quel 1970, sotto vari pretesti, fu in molti casi smontato dalle sale che lo proiettavano. Per poterlo girare Rosi, incontrando dinieghi ovunque, aveva dovuto addirittura spostarsi fuori dai confini italiani, nella Jugoslavia di allora. Era la Grande guerra narrata in Un anno sull’Altipiano da Emilio Lussu, ma il focus era la tragica incompetenza dell’Alto Comando e la follia criminale delle decimazioni che sanzionavano la “codardia” dei soldati in fuga.

Con Orizzonti di gloria, nel 1957, Stanley Kubrick aveva già affrontato la stessa materia, l’infamia delle corti marziali e delle fucilazioni “esemplari” per rinsaldare il morale tra le carneficine suicide del Primo conflitto mondiale, in quello che resta tra i più insuperati e insuperabili capolavori del cinema antimilitarista.

Tanto efficace che in Francia (paese in cui era ambientato anche il romanzo omonimo di Humphrey Cobb) il film non poté circolare per 18 anni, fino ai ’70 inoltrati. Kirk Douglas e Gian Maria Volonté erano molto più che semplici attori, erano parte civile in quelle narrazioni.

Niente combattimenti

Sono gli stessi temi che Gianni Amelio affronta nel primo dei cinque film italiani in corsa per il Leone d’oro, Campo di battaglia, a sua volta partendo da un libro (La Sfida di Carlo Patriarca, Neri Pozza).

Il film esce il 5 settembre con 01 Distribution. Magari il content non piacerà troppo al nostro generale Vannacci, ma non ce lo vedo a scomodarsi dalla sua poltrona a Strasburgo per bacchettare le intemperanti ricostruzioni di Amelio: non è il tipo di film capace di scatenare crociate di fondamentalismo militarista.

Il campo di battaglia è quello del fronte friulano del 1918, gli esterni del film sono stati girati tra Udine, Tolmezzo, Venzone, Cormons, Osoppo e Gorizia ma in parte anche in Trentino. In quei mesi nessuno lo sa, ma la guerra non durerà ancora molto.

I combattimenti non si vedono, ma si vede l’orrore che hanno prodotto, gli sciacalli che frugano tra i cumuli di cadaveri, cimiteri a cielo aperto da cui può spuntare la mano tremante di un vivo. A rifluire verso gli abitati, dalle trincee, è un fiume di disperati, combattenti e sbandati, con le divise a brandelli, scalzi, affamati, un esercito di sopravvissuti per caso che ha una sola speranza: sfuggire a un altro scontro coi “crucchi”.

Etica alternativa

Teatro dell’azione non sono le trincee ma un ospedale da campo che accoglie corpi maciullati e mutilazioni indicibili. Automutilazioni, in molti casi: l’estrema risorsa per sottrarsi al massacro. Per gli ufficiali medici in forze il mandato perciò è tassativo: commedianti o no, nel dubbio, anche storpi, semiciechi, senza una gamba o una mano, tutti i pazienti vanno rimessi sommariamente in piedi e rispediti al fronte, senza ritardi e senza eccezioni.

È questo ruolo da gendarme, da persecutore dei “commedianti” sospetti o palesi, che si riserva il capitano Stefano Zorzi (Gabriel Montesi) e che ripugna invece al tenente Giulio Farradi (Alessandro Borghi), amico del suo superiore, suo compagno di studi e come lui di famiglia altoborghese. Provocare in segreto infezioni inabilitanti per rimandare a casa chi può, sfruttando le sue competenze di biologo, è la sua etica alternativa.

Anna (Federica Rosellini), con le sue belle divise da infermiera inamidate e fiammanti che neanche la Jennifer Jones di Addio alle armi, dovrebbe essere il terzo vertice di un triangolo amoroso sommerso, ma proprio bene non si capisce, o almeno non l’ho capito io. E finalmente arriva la Spagnola, ‘a livella in forma di pandemia, che democraticamente massacra a tappeto militari e civili senza bisogno di fuoco nemico.

Il film si popola delle mascherine che il Covid ci ha reso così familiari e Giulio ha facoltà di immolarsi in un lazzaretto invece di finire sotto processo davanti alla Corte Marziale. Avrò condensato all’estremo i centoquattro minuti del film, ma grosso modo il riassunto è fedele.

La Spagnola

Se pretendete suspense, se vi aspettate climax emotivo, questo non è il vostro film. Il vero bonus di Campo di battaglia sono le facce dei feriti in branda, ragazzi veri del posto che parlano solo in dialetto e hanno diciotto, vent’anni, una generazione sbattuta in trincea senza nemmeno il diritto di dichiarare una paura che toglie il senno.

Sono i loro scambi, i loro squarci di testimonianza con parole che i medici scolarizzati spesso nemmeno capiscono, i frammenti di vita “normale” che evocano sognando un ritorno che sembra utopia, la parte vitale del film. A farla franca più agevolmente di loro, simulando una demenza da ospedale psichiatrico, è un malavitoso professionale che offrirà a Borghi un lucroso commercio di agevolazioni sanitarie a pagamento. Quel medico che lo ha salvato è uno straccione da corrompere a modico prezzo.

Vediamo poco invece del propagarsi della Spagnola, la prima pandemia moderna, anche se Amelio è esplicito nel precisare le responsabilità della censura di guerra, che tenne a lungo segreta la natura letale del virus.

Tra le popolazioni coinvolte si parlò a lungo di un morbo circoscritto alla penisola iberica perché soltanto la Spagna, che non era coinvolta nel conflitto, forniva a mondo notizie sull’epidemia che tra il 1918 e il 1920 fece molti più morti del conflitto militare. Nei titoli di coda il regista, che festeggerà tra poco gli 80 anni (li compirà nel gennaio 2025) annota che in Italia le vittime furono 600mila su una popolazione di 40 milioni. La fresca memoria del nostro coronavirus, e la viva speranza che i nuovi casi non si moltiplichino, magari agli spettatori faranno venir voglia di rivisitare questo capitolo di storia.

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