È una squadra composta da 12 ragazzi che giocano sparsi per il mondo. Sono scappati dalla guerra civile, li ha rimessi insieme un’ex stella NBA
Alle Olimpiadi puoi dire di tutto. Ma è impossibile negare il loro ruolo di straordinarie insegnanti di storia e geografia. Ieri, verso l’ora di pranzo, in un colpo solo, decine di milioni di persone hanno conosciuto il Sud Sudan, Corno d’Africa, il paese più giovane e fra i più poveri del mondo, figlio di una guerra civile costata un milione e 900mila morti in vent’anni, conclusa con un referendum il 9 gennaio 2011 in cui il 98,83 per cento degli abitanti ha scelto l’indipendenza dal Sudan.
La “scoperta” si deve alla nazionale di basket, che a Lilla, nel torneo olimpico, ha superato per 90-79 Porto Rico, vincitore del torneo di qualificazione fatale alla nazionale italiana di Gianmarco Pozzecco. Il Sud Sudan, 11 milioni di abitanti, grande più di due volte l’Italia, ha mostrato il suo biglietto da visita esibito da 12 ragazzi che giocano in tutto il mondo, dalla Cina all’Australia, dagli Stati Uniti alla Danimarca al Senegal.
Il ruolo di Luol Deng
Se non parlassimo di un paese storicamente assediato già nell’infanzia della sua vita da guerre e fame potremmo dire che si tratta di una favola con un pifferaio magico, Luol Deng, oggi presidente della federazione e ieri giocatore dei Chicago Bulls. È stato lui a crederci e a mettere insieme questo sogno che ieri ha fatto impazzire il pubblico dell’arena Pierre Mauroy di Lilla. Non si è trattato proprio di una sorpresa.
Non più tardi di una settimana fa, in amichevole, i sud sudanesi avevano rischiato di superare niente meno che lo squadrone USA e c’era voluto un canestro di LeBron James nei secondi finali per evitare un risultato che sarebbe entrato nella leggenda. C’è sempre tempo per riprovarci. Dopo la vittoria di ieri, il Sud Sudan è atteso mercoledì dalla Serbia e sabato dagli Stati Uniti.
Ieri, peraltro la partita è cominciata con una gaffe: Carlik Jones, il playmaker che giocherà nel Partizan, ha guardato perplesso i compagni capendo subito che qualcosa non andava. Al posto del loro inno è andato in onda quello del Sudan… ma non c’è stato troppo tempo per pensarci: i vari Marial Shayok, Majok Deng, Khaman Malouach, un ragazzo che non ha compiuto i 18 anni e ha già cucito addosso un futuro nella Nba a partire dal 2025 con i suoi 218 centimetri, hanno impiegato un tempo e mezzo per prendere le misure al Porto Rico, poi si sono presi la partita.
Questa giovanissima storia viene però da lontano. Negli anni abbiamo saputo del Sud Sudan tramite i racconti di padre Daniele Moschetti: «Proprio prima dell’indipendenza organizzammo i nostri Mondiali per la gente del posto, a Mapuordit, durante Sudafrica 2010 – ci racconta il missionario comboniano ora a Castel Volturno – Quindi, una maratona per sensibilizzare la gente e spingerla ad andare a votare prima del referendum.
Il Sud Sudan potrebbe essere ricco: ha tante risorse naturali. Ma le terre migliori del paese sono state vendute, meglio dire svendute alle multinazionali e ad alcune potenze straniere.
E la guerra civile fra le diverse etnie ha fatto il resto». E già perché dal 2013 al 2020 lo scontro fra Dinka e Nuer ha provocato 383mila morti. «Purtroppo ora si sono aggiunte anche le conseguenze di un’altra guerra civile, in Sudan, con milioni di persone che varcano il confine per mettersi in salvo. Per questo, la storia di questi ragazzi è la cosa più bella che possa esserci ora in Sud Sudan. E’ una speranza, l’idea che ci sia una possibilità».
Manute Bol
Questa storia ha anche un padre, probabilmente il sud sudanese più celebre. Si chiamava Manute Bol, il “gigante buono” della Nba (nella sua carriera c’è anche una parentesi italiana, a Forlì): spese tutto se stesso per lo sport e i ragazzi della sua terra. Per morire di una malattia della pelle a 47 anni, senza poter vivere il momento dell’indipendenza.
Sorte diversa capitò a Paulo Lokoro, mezzofondista del primo Refugee Olympic Team, che raccontò anche a Papa Francesco un giorno della sua infanzia, quel vivere facendo il pastore e mangiando solo frutta per un anno intero. Poi il campo profughi in Kenya e l’Olimpiade di Rio.
Ci sono diversi sud sudanesi nella nazionale dei rifugiati di Parigi: fra questi anche Dominic Lobalu, che a giugno ha vinto il titolo europeo con la Svizzera sui 10000 metri ma per problemi di passaporto correrà per il Refugee Olympic Team. Perina Lokure Nakang, un’altra mezzofondista, sogna invece ad occhi aperti: «Voglio fare come Athing Mu», la campionessa olimpica statunitense di Tokyo di origini sud sudanesi rimasta fuori dai Trials per una caduta.
Ci sono anche sogni che girano intorno a un altro pallone: per due anni, fino al 2023, la nazionale di calcio è stata diretta da un italiano, Stefano Cusin.
Le bright stars, le stelle che brillano in versione cestistico, avevano già scatenato entusiasmo con la loro “quasi vittoria” contro il dream team edizione 2024. Ma la festa nella capitale Giuba si è ripetuta.
Una squadra di basket non ha la bacchetta magica per dire alla storia vai di qua o di là. Ma un primo risultato l’ha ottenuto: dire al mondo che esiste anche il Sud Sudan.
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