-
Nel suo nuovo libro Velo pietoso. Una stagione di retorica Edoardo Albinati scrive di Giovanna Fatello, bambina di dieci anni morta nel marzo 2014 durante una semplice operazione al timpano in una clinica romana.
-
Una morte improvvisa, inspiegabile, dato che, otite a parte, Giovanna era in buona salute.
-
Il 27 ottobre 2020, i due anestesisti sono stati condannati a due anni per omicidio colposo. È quasi certo che il reato cadrà in prescrizione prima degli ulteriori gradi di giudizio. Tutti gli altri sono stati assolti dalla stessa imputazione ma su alcuni ancora pendono accuse per falsa testimonianza.
Pubblichiamo un estratto dal nuovo libro di Edoardo Albinati: Velo pietoso. Una stagione di retorica, appena uscito per Rizzoli.
Quella che sto per raccontare per sommi capi è una storia triste, assurda ed esemplare di come la sciatteria, se le cose girano storte, possa diventare micidiale; e dei tentativi che vengono fatti per nasconderla e continuare indisturbati a comportarsi come prima.
Marzo 2014. Giovanna ha dieci anni e un timpano perforato dall’otite. I genitori la portano da un luminare: ha bisogno di un’operazione di plastica interna, piuttosto semplice, di routine, dice lui, ma se la mettiamo in lista d’attesa in ospedale passeranno almeno otto mesi, mentre privatamente potremmo farla subito. I genitori ci pensano su e accettano questa seconda ipotesi: tra un po’ arriva l’estate e la bambina così potrà farsi i bagni al mare, oltretutto la nonna generosamente si offre di coprire la spesa, che non è eccessiva.
Per via di conoscenze viene scelta la clinica privata di Roma Villa Mafalda, di buon nome. Il giorno stabilito, prima di scendere in sala operatoria la bambina non viene visitata né dal chirurgo né dall’anestesista; ad accompagnarla giù è un’addetta alle pulizie. Sono circa le nove del mattino.
L’intervento
L’intervento dovrebbe durare una quarantina di minuti, ma dopo un’ora e più Giovanna non è tornata in camera. I genitori, Matteo Fatello e Valentina Leoni, cominciano a preoccuparsi, al piano delle degenze sono spariti tutti, passa un’altra ora, è il panico, quindi un’altra ora senza ricevere notizie: finalmente il padre scende e trova da sé la strada per il blocco operatorio nei sotterranei della clinica. Qui incontra un uomo, mai visto prima, che gli impedisce di entrare in sala e dice: «Sono il primario di anestesiologia del Cto, nella mia vita ne ho salvate di persone, e sono più dispiaciuto di lei».
Dispiaciuto di cosa? Che la bambina è morta. Una morte improvvisa, inspiegabile, dato che, otite a parte, Giovanna era in buona salute. Dicono di aver fatto di tutto per salvarla. Il chirurgo otorino si è sentito male e se n’è andato. La sala operatoria non viene posta sotto sequestro e il pomeriggio stesso tutte le informazioni che si potevano desumere dall’apparecchio che registrava i parametri della paziente vengono cancellate, per cui non si saprà come siano andate realmente le cose in sala operatoria se non dopo anni di ricostruzioni effettuate dai carabinieri, dai Nas e dai periti. (Per trovare periti di parte disponibili, la famiglia dovrà rivolgersi fuori Roma, a Milano, a Pisa).
La sentenza
La sentenza che arriva sei anni dopo la morte di Giovanna Fatello stabilirà alcuni punti chiave della storia. La cartella clinica della paziente era incompleta: mancavano il gruppo sanguigno e la categoria di rischio anestesiologico, mancava persino il suo peso, elemento decisivo per determinare le dosi di farmaci in una anestesia.
L’esperto anestesista, professor Pierfrancesco Dauri, medaglia d’argento al merito della sanità pubblica e primario al Cto, dopo aver intubato Giovanna si era assentato due volte dalla sala operatoria per fare telefonate col suo cellulare e recarsi al bar della clinica. Al posto suo aveva lasciato un ex allievo, Federico Santilli, che però non conosceva il funzionamento delle macchine per la respirazione in uso in quella sala, non era accreditato dalla clinica dove metteva piede per la prima volta né risultava far parte dell’équipe operatoria (Dauri lo definisce in prima battuta «un amico»), cosa del resto vietata dato che aveva un contratto esclusivo come anestesista presso l’ospedale di Rieti.
Le tre ore e mezza di tentativi di rianimazione di Giovanna, alcuni dei quali molto opinabili secondo i periti, avevano comunque poco senso dato che la bambina aveva cessato di vivere già prima delle dieci (mentre la morte verrà ufficialmente dichiarata solo alle 13.40) e il decesso era sopraggiunto in meno di cinque minuti per ipossia e conseguente arresto cardiaco. Addirittura sul corpicino ormai cadavere da più di due ore veniva effettuata una rx del torace (in cartella risultava esserne stata fatta una prima dell’intervento, ma si è scoperto che non era vero). Si suppone dunque che quelle quasi quattro ore siano state impiegate per concordare una versione accettabile dei fatti, accomodando l’orario della crisi cardiaca e della prestazione dei soccorsi.
Chiunque degli anestesisti fosse presente in sala al momento dell’emergenza non si era reso conto che la bambina stava desaturando e presto sarebbe andata in arresto cardiaco perché non aveva osservato (obbligo primario per un anestesista) il colorito della paziente, rendendosi conto che stava diventando cianotica (un testimone accorso in sala poco dopo le dieci riferirà che «la bambina era nera»). Sarebbe bastato alzare il telo chirurgico e dare uno sguardo. Invece di fare questo semplice gesto, venivano incaricati gli infermieri di procurarsi un secondo saturimetro e poi un terzo, dato che il primo non funzionava bene (problema già segnalato da un’altra anestesista il giorno precedente alla responsabile delle sale operatorie, che le aveva risposto: «Che te frega, tanto tu domani operi in un’altra sala»).
Il fatto di allontanarsi e avvicendarsi tra varie sale operatorie è stato rivelato da alcune intercettazioni come essere un modus operandi tipico di Dauri, che gestiva un’associazione di anestesisti e aveva reclutato Santilli come tappabuchi. Il macchinario per la respirazione artificiale, di vecchio progetto, non era dotato di un sensore che segnalasse l’eventuale scarsità di ossigeno fornito al paziente: inoltre, per passare dalla modalità di ventilazione manuale effettuata dall’anestesista schiacciando il cosiddetto “pallone” a quella meccanica, gestita dall’apparecchio, occorreva azionare una levetta.
Ebbene, questa levetta ci si era scordati di azionarla, oppure Santilli semplicemente ignorava di doverla azionare, non avendo letto le istruzioni della macchina o, in mancanza di questo, non avendo potuto collaudarla in precedenza («bastano due minuti per farlo», ha dichiarato un teste). Ecco perché Giovanna da un certo momento in poi ha cominciato a respirare le sue stesse esalazioni ed è morta soffocata. Un intervento tempestivo l’avrebbe salvata, ma l’anestesista capo era al bar e l’altro, abusivo, non sapeva far funzionare i macchinari.
La condanna
Il 27 ottobre 2020, Dauri e Santilli sono stati condannati a due anni per omicidio colposo. È quasi certo che il reato cadrà in prescrizione prima degli ulteriori gradi di giudizio. Tutti gli altri sono stati assolti dalla stessa imputazione ma su alcuni ancora pendono accuse per falsa testimonianza.
Il luminare dell’otorinolaringoiatria, dalla sciagurata mattina a Villa Mafalda, i genitori di Giovanna lo hanno rivisto solo sei anni dopo in tribunale: in quel lasso di tempo non una chiamata o una lettera o qualcosa da parte del chirurgo a cui avevano affidato la loro figlia.
Le telefonate di Dauri (quanto lunghe, fatte da dove, parlando con chi) sono state oggetto di infinite disquisizioni processuali ma è lo stesso imputato a tagliar corto con le seguenti parole: «Io posso sta’ al telefono co’ chi cazzo me pare! (risatina)» (da un’intercettazione effettuata un anno e mezzo dopo l’accaduto).
Dauri è tuttora primario, Santilli, che non ha mai voluto mettere piede in tribunale, è nel frattempo incorso in sanzioni per trafugamento e traffico di oppiacei. Sono passati sette anni da quando il padre di Giovanna Fatello, ebanista, ha costruito con le sue mani la bara per la bambina, che dalle risultanze dell’autopsia era alta un metro e trentacinque e pesava trentacinque chili.
Edoardo Albinati è autore di Velo pietoso. Una stagione di retorica, edito da Rizzoli
© Riproduzione riservata