Quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre dell’anno scorso, il museo d’arte di Tel Aviv ospitava la mostra Kippur, War Requiem, una retrospettiva delle opere realizzate su quella guerra del regista israeliano Amos Gitai.

L’anno che ricorderemo come quello in cui il paese ebraico ha subito l’attacco più devastante della sua tormentata esistenza, scatenando un conflitto in quelle terre tanto sanguinoso quanto divisivo, era anche quello che marcava il cinquantesimo anniversario dalla guerra dello Yom Kippur.

Quest’ultima, scoppiata il 6 ottobre del 1973 con l’attacco di Siria ed Egitto a Israele, è stata un evento altamente traumatico per gli israeliani, e gli effetti sulla psiche del paese e la storia della regione si sono riverberati per decenni.

Ma è stata anche l’evento che ha cambiato la vita di Gitai e lo ha condotto alla regia cinematografica e teatrale. Gitai era uno studente di architettura al secondo anno quando è scoppiata la guerra dello Yom Kippur. Aveva finito poco prima il servizio di leva obbligatorio, ma non era ancora incluso tra le file dei riservisti.

Il luogo

Ci è andato lo stesso e da quella esperienza – incluso essere sopravvissuto al missile siriano che ha colpito l’elicottero su cui viaggiava al sesto giorno della guerra – sono nati alcuni tra i suoi lavori più importanti, rappresentati magistralmente nella mostra di Tel Aviv.

Al centro del suo progetto creativo, c’è the place, il luogo. In particolare the Israeli place e come le forze impetuose della storia hanno un impatto e, nel contempo, danno forma all’individuo.

Nella vasta opera di Gitai, che conta ormai una trentina di film, altrettanti documentari e decine di pellicole sperimentali, oltre a numerose rappresentazioni teatrali, spesso critici nei confronti di vari governi israeliani, molti lavori sono organizzati in trilogie, che esplorano uno specifico soggetto in momenti temporali diversi. Tra i più emblematici della sua ricerca, troviamo Wadi e House.

Da artista, Gitai si è immerso nella complessità della sua terra e delle questioni che attanagliano i vari popoli che la abitano, fornendo uno sguardo quanto mai necessario di questi tempi sull’individuo, facendoci avvicinare dall’interno alla storia di Israele, alla questione palestinese e ai rapporti tra i popoli di quella terra. E aiutando gli spettatori a muoversi dal clamore semplificatorio delle ideologie, spesso dominante sui media.

La casa

La piéce House, che è andata in scena al Teatro Argentina dall’8 al 10 ottobre nell’ambito del Romaeuropa Festival 2024 in corealizzazione con fondazione Teatro di Roma, è un importante tassello del percorso artistico del grande autore israeliano.

Basandosi sulla trilogia di documentari La Maison, realizzato nel 1980, inizialmente commissionato e poi vietato dalla televisione israeliana; Une maison à Jérusalem del 1997 e News from Home/News from House, del 2005, Gitai ha messo in scena la storia di una casa di Gerusalemme Ovest, attraverso i dialoghi e le vite degli abitanti che vi si sono succeduti, arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani.

Peraltro, il primo di questi documentari gli costò l’ostracismo del governo israeliano del tempo, seguito dalla scelta di trasferirsi prima negli Stati Uniti e poi a Parigi.

I protagonisti di eccezionale bravura parlano inglese, arabo, francese, ebraico e yiddish, accompagnati dal rumore del taglio delle pietre e della costruzione di una casa, e dalla musica che a tratti irrompe nella durezza del racconto di due ore e mezza.

Emergono così i due incompatibili punti di vista dei personaggi, accomunati però dallo sradicamento dai rispettivi luoghi d’origine. Sullo sfondo del racconto, un grande video riproduce il susseguirsi delle scene sul palcoscenico viste da una prospettiva diversa da quella della platea, insieme ad album di vecchie foto di famiglie dal triste destino – sfollati palestinesi e vittime dell’Olocausto – e immagini in bianco e nero di guerre e ricostruzioni, rappresentando così le complesse sfaccettature della storia del Medio Oriente e della sua valenza nella comprensione delle tragedie in corso.

Prima di Roma, l’opera era andata in scena a Parigi, Londra e Berlino, ma per ora non in Israele.

Il silenzio delle Muse

«Siamo attualmente in una situazione di guerra, quindi, come dice il detto, quando gridano i cannoni le Muse restano in silenzio. È un momento veramente molto difficile per l'arte e per gli artisti in Israele» ha detto Gitai parlando con i giornalisti in occasione della presentazione di House a Roma e ricordando che proprio per questo motivo è importante promuovere un dialogo tra israeliani e palestinesi, ma anche tra questi e iraniani ed europei.

Un paio di settimane fa, è invece approdato in Israele, ad Haifa, l’ultimo film di Gitai, Why War, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia a fine estate.

Da pacifista, convinto della necessità di convivenza tra i due popoli, Gitai traccia in questo film le origini delle guerre, ispirato dal carteggio tra Albert Einstein e Sigmund Freud quasi un secolo fa, alla ricerca di una spiegazione sulla violenza di massa che esplode in nome della religione, della razza e della nazionalità.

La produzione di Gitai, che include altre opere importanti come Yitzhak Rabin – Cronaca di un assassinio e Lettera a un amico a Gaza, continua a ricordarci il cruciale contributo che può dare la cultura alla comprensione di ciò che sta accadendo in Medio Oriente, proprio quando un migliaio di scrittori ed editori internazionali hanno annunciato di voler boicottare le istituzioni culturali israeliane.

Come ha ricordato Gitai, commentando Why War, Freud ha concluso così una sua lettera a Einstein: «Nel frattempo, possiamo dirci: tutto quello che funziona per lo sviluppo della cultura funziona anche contro la guerra».

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