- «Penso che la bassa qualità del nostro dibattito pubblico abbia molte cause. I modesti indici di lettura sono una di quelle, a sua volta conseguenza del modo di organizzare il sistema formativo».
- «Ci sono editori che, pur apprezzando la qualità, non possono sottrarsi alla pubblicazione di testi brutti ma destinati a vendere molto. Per noi non è così fin da quando Benedetto Croce suggerì a Giovanni Laterza di farsi editore con “una fisionomia determinata”»
- «Per governare un Paese la competenza è necessaria anche se da sola non basta. È un’illusione che Draghi stia governando l’emergenza con atti pragmatici e non ideologici»
L’anniversario è di quelli rotondi: 120 anni esatti. La casa editrice Laterza nasce nel 1901 e tracciarne la vicenda è complicato perché un secolo e più non si condensa, ma una conversazione con Giuseppe Laterza – oggi col cugino Alessandro alla guida della casa – quella si giustifica partendo magari da Croce, il nume che l’impresa del fondatore, Giovanni Laterza, accompagna dal principio con quella raccomandazione a dedicarsi a storia, filosofia, politica, materie che battezzava “roba grave”.
Giuseppe Laterza, non ti chiedo di indicarmi l’erede di Croce, se mai vi fosse, invece vorrei sapere chi secondo te ha interpretato meglio gli ultimi trent’anni, dalla caduta del Muro alla pandemia, quelli che tu hai “scrutato” da un osservatorio così particolare?
Ho avuto la fortuna di frequentare veri maestri del pensiero contemporaneo: da Ralf Dahrendorf a Eric Hobsbawm, da Fernando Savater a Zygmunt Bauman, da Jacques Le Goff a Jurgen Habermas, per citarne solo alcuni fuori dal nostro Paese. Forse la riflessione di Bauman è quella che ha avuto una influenza più capillare, se vuoi anche per una maggiore traduzione popolare: la sua espressione “società liquida” è divenuta parte del linguaggio comune, addirittura uno slogan, talvolta usato senza conoscerne l’esatta portata e chi ne fosse l’autore.
Penso tu abbia ragione, per parte mia è da vent’anni che mi sforzo di capire cosa sia un “partito liquido”, ma anche per questo ho sempre creduto che chi ha la fortuna di fare il tuo mestiere gode di un privilegio: come nel caso di Bauman coglie in anticipo tendenze che si svelano col tempo. Una di queste mi pare sia la poca cura per la complessità, insomma il desiderio di banalizzare il mondo. Gli esempi si sprecano e, al fondo, la pandemia ne ha riservati di nuovi. Non ti pare che siamo precipitati in un discorso pubblico che finisce col trascinare verso il basso anche chi vorrebbe salire un gradino sopra?
Qualsiasi considerazione sulla qualità del discorso pubblico non può prescindere da un fatto: a partire dal Novecento quel discorso si è costruito sempre di più attorno e dentro radio e televisione, poi negli ultimi vent’anni il web, adattandosi e in qualche misura plasmandosi.
Siccome la vocazione dei media è arrivare al maggior numero di persone inevitabilmente il linguaggio ha dovuto farsi diretto, più semplice, anche se semplice non dovrebbe voler dire banalizzato, come succede purtroppo spesso.
Invertire rotta è un compito arduo ma non impossibile. A complicarlo considera che i media hanno anche, a volte soprattutto, finalità commerciali capaci di insidiare non poco la qualità.
Mi sono laureato con Federico Caffè e ho appreso da lui che un mercato ben funzionante tiene assieme prodotti di largo consumo e di nicchia perché il successo può riguardare ambedue. Nell’editoria libraria questa pluralità è più evidente: i bestseller degli ultimi anni sono stati pubblicati anche da ottime case editrici di medie dimensioni come Sellerio o E/O. Noi stessi per mesi abbiamo avuto in classifica i libri di Stefano Mancuso, Andrea Marcolongo o il Dante di Alessandro Barbero.
Ovviamente la partita diventa più difficile per i giornali e la TV poiché la loro dipendenza dalla pubblicità è maggiore. In quel caso parliamo di un’audience amplissima, milioni di persone misurate in tempo reale: la spinta a semplificare e spesso drammatizzare il discorso per alzare gli ascolti è quasi irresistibile, ma, ripeto, non è un destino. Bisogna lavorare seriamente e mantenere alta un’etica della responsabilità.
Non voglio trascinarti nella querelle sugli italiani che leggono poco, ma non ti pare di vedere in questa deriva qualche effetto della bulimia che ha inglobato la politica e qualunque materia complessa in un intrattenimento che la televisione programma h.24? In fondo, l’oggetto libro è altro dalla trama di talk che per campare sono costretti a sceneggiare confronti dove le parti sono stabilite in partenza e il merito si fa quasi irrilevante. Credi che il “testo” sia ancora l’anticorpo capace di limitare guasti simili?
Penso che la bassa qualità del nostro dibattito pubblico abbia molte cause. I modesti indici di lettura sono una di quelle, a sua volta conseguenza del modo di organizzare il sistema formativo.
Me lo ha insegnato Tullio De Mauro nei tanti anni in cui ha dato un contributo decisivo alla casa editrice: l’abitudine alla lettura e la qualità di ciò che si legge dipendono dalla scuola, quella alla quale tutti abbiamo accesso. È lì che dovremmo imparare a discutere, ma questo non accade o non accade abbastanza.
Ricordo quando le mie figlie mi raccontavano con entusiasmo dello spazio settimanale di "debate” previsto nelle scuole che hanno frequentato nel penultimo anno di liceo in Inghilterra. La classe si divideva su un tema di attualità e imparavano ad argomentare una tesi, la si condividesse o meno, in modi e tempi disciplinati e nel rispetto reciproco.
Mi ha sempre colpito che nei paesi anglosassoni il conflitto regolato delle idee sia considerato essenziale per una buona democrazia, penso alle riflessioni su questo punto di Amartya Sen. Qui da noi è difficile discutere idee contrapposte animatamente, ma in modo corretto.
Viene più facile ironizzare, distorcere o ignorare. Anche in politica quando lo scontro diventa pesante lo si neutralizza sostituendo il valore della critica col primato della competenza e ci si affida all’idea, falsa in sé, che alla grande politica, quella che impone di scegliere tra valori diversi, possano sostituirsi decisioni tecniche, per ciò stesso valide per tutti, ma non è così.
Per governare un Paese la competenza è necessaria anche se da sola non basta. È un’illusione che Draghi stia governando l’emergenza con atti pragmatici e non ideologici: in realtà questo governo per forza di cose si trova a fare scelte fondamentali per il futuro, ma di cui si discute poco. Un po’ perché la nostra classe dirigente preferisce prendere le decisioni in stanze appartate piuttosto che sottoporle al giudizio diffuso. Un po’ perché nelle scelte che farà il governo sono in gioco differenze di visione, ad esempio sul rapporto tra pubblico e privato o sul grado accettabile di disuguaglianze. Differenze che attraversano la maggioranza e che, laddove se ne discutesse seriamente, potrebbero spaccarla.
Penso tu abbia ragione quando imputi alla classe dirigente, aggiungerei non solo quella politica, una tendenza a “dissimulare” le sue convinzioni nel timore di inquietare qualcuno o, banalmente, perché giudica più conveniente chiudersi nel proprio fortino. Il discorso forse si lega a un costume più antico che sta nell’omologarsi all’onda della maggioranza, un po’ per pigrizia, di più per opportunismo. Qui la domanda diventa se il populismo di ora sia davvero una novità o se quel modo di conseguire il consenso dando libero sfogo alla “pancia” al fondo non sia sempre esistito.
In democrazia cercare il consenso è fisiologico. Rovinoso è farne il baricentro del tutto. Ma qui la differenza la possono fare solo gli elettori: quanto più saranno culturalmente e politicamente formati tanto più eviteranno di cadere ostaggi di false promesse e il loro giudizio non subirà il richiamo di chi propone un vantaggio immediato o personale, magari a scapito della collettività e dei loro stessi figli. Anche per questo la soluzione è investire sulla cultura.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lo ripete spesso: solo così si forma il capitale umano e la cittadinanza innerva la democrazia, che poi sono i due fattori essenziali di un paese civile, moderno e ricco. Detto ciò, anche per chi fa libri c’è un problema di consenso e omologazione.
Ci sono editori che, pur apprezzando la qualità, non possono sottrarsi alla pubblicazione di testi brutti ma destinati a vendere molto. Per noi non è così fin da quando Benedetto Croce suggerì a Giovanni Laterza di farsi editore con “una fisionomia determinata”: il che non vuol dire ignorare i gusti del pubblico, ma provare a raccoglierne il consenso su proposte innovative, sapendo che puoi sbagliare la previsione di vendita, ma non la qualità di un libro.
Dovrebbe valere anche per chi fa politica: puoi sbagliare la previsione di un sondaggio ma non la coerenza di un’idea. Mi fai venire in mente che tra le iniziative più belle che avete promosso negli ultimi anni ci sono le Lezioni di storia. Città diverse, teatri gremiti con file lunghissime a catturare i posti. Assieme a quello l’impegno sui Festival dell’Economia a Trento o del Diritto a Piacenza. Tutto questo è più di un anticorpo: direi che è un mezzo miracolo. Come lo interpreti? Trovi sia una lettura consolante perché parliamo comunque di avanguardie o la vedi come una domanda di conoscenza che in un disarmo delle culture politiche finisce soddisfatta in altri modi?
In Italia esiste una élite fatta di persone colte e curiose che leggono libri, vanno a teatro e al cinema, vedono mostre e frequentano i festival. Secondo l’Istat sono quattro milioni circa: un pezzo d’Italia che guarda al domani e che i suoi interessi li vuole condividere con altri perché sa quale importanza abbia vivere in una comunità. Per questo si mettono in fila e riempiono quei teatri: per capire il mondo, ma non da soli. In proporzione sono molti più che in Europa.
Il problema è che questa élite per quanto ampia non ha potere o non ne ha abbastanza. Mentre sull’altro fronte, chi il potere lo detiene, nelle istituzioni come nei consigli di amministrazione di banche e imprese, alla cultura e alla formazione troppo spesso non dà il giusto peso. Ma sono quest’ultimi a prendere le decisioni cruciali e allora non c’è da stupirsi che siano spesso decisioni miopi, corporative e in fondo corresponsabili dello sviluppo mancato degli ultimi anni. Poi, certo, c’è anche il piccolo potere di una oligarchia culturale che a volte gestisce una soprintendenza o un dipartimento universitario con lo stesso atteggiamento castale con cui i capi corrente dei partiti in questi anni hanno formato le liste elettorali.
So di cosa parli. E siccome tocchi quel tasto restiamo alla politica intesa come tanta parte della produzione Laterza. Fammi citare un autore che vi è caro, Luciano Canfora, con due rimandi. Uno è al pamphlet più recente, La Metamorfosi, perché contiene una critica severa sulle colpe di una sinistra che è finita col far propri linguaggio, posizioni, persino principi del mondo contro cui era sorta. Sempre Canfora rinvia alla figura di Concetto Marchesi a cui ha dedicato una biografia definitiva, non solo per ampiezza. In un bellissimo discorso sulle ragioni che gli fecero scegliere di diventare comunista, Marchesi dice, «Avevo l’animo dell’oppresso senza averne la rassegnazione». Sei d’accordo se ti dico che il guaio della sinistra non è avere ceduto alla rassegnazione, ma il non avere più condiviso “l’animo dell’oppresso”?
Forse, in parte. A me sembra, però, che a mancare sia soprattutto una visione del mondo alternativa tanto al neoliberismo secondo cui mercato e tecnologia da soli possono risolvere ogni male, che al sovranismo che imputa tutti i guasti del mondo alla globalizzazione.
Eppure idee originali a cui la sinistra potrebbe rifarsi esistono: il problema è che non riescono a diventare una vera massa critica. Dal canto suo in questi anni il Pd è sembrato smarrire la sua ragion d’essere, sociale e ideale, troppo spesso concentrato sulla tattica, su schermaglie quotidiane o a mantenere in vita equilibri di potere interno.
Da questo punto di vista mi pare che Enrico Letta abbia iniziato a segnare una discontinuità. Penso alla proposta sulla tassa di successione ripresa da una proposta del Forum delle disuguaglianze coordinato da Fabrizio Barca. Dobbiamo riattivare un circuito virtuoso tra politica, ricerca e società civile. Negli anni Sessanta Laterza pubblicava gli atti dei convegni del ‘Mondo’ sui temi di politica pubblica, dalla scuola all’energia, dalla giustizia all’Europa. Erano incontri di analisi e proposta, indipendenti dai partiti, anche se ispirati da una visione del mondo liberale e progressista, a cui seguiva un dibattito tra intellettuali, esperti, politici, giornalisti, che spesso trovava delle ricadute anche in una legislazione innovativa.
La prendo come una ipotesi di lavoro e forse può essere anche un modo, uno tra i molti, per ridurre il rischio di assistere senza una reazione adeguata a una concentrazione del potere culturale inedita. Anche qui, per capirci, chi seleziona la gigantesca “biblioteca del tutto” che la rete e il potere dell’algoritmo alimentano.
Come spiega Gino Roncaglia in un bel saggio sull’Età della frammentazione anche il web sta cambiando e segue le nostre propensioni culturali. L’atteggiamento verso i giganti della rete non è più l’ingenuo fideismo di tanti profeti tecnologici del passato, quelli che giudicavano scontata la sostituzione del libro su carta con l’ebook. Oggi quei giganti cominciano a misurarsi coi vincoli della legge che finora hanno aggirato, tasse comprese e su questo ti consiglio di vedere lo straordinario documentario The social dilemma.
Anche il Parlamento europeo sembra avere compreso che ci vuole una Costituzione della rete, come anni fa aveva già intuito Stefano Rodotà. Dobbiamo uscire dal Far West di Internet e dotarci di regole condivise a tutela di tutti i cittadini cominciando dai più giovani. Ma per fare una buona Costituzione occorre disporre di visioni ampie e coerenti del mondo come quelle che avevano i nostri costituenti dopo la guerra.
Ho visto che anche Marino Sinibaldi, nel bel dialogo che ha avuto con te su Domani, parla delle ideologie come «fortini diroccati» del pensiero. Ma le visioni del mondo sono necessarie.
Certo, ci sono le cattive ideologie come io considero, pure nella loro grande diversità, sia il fascismo che il comunismo. Ma ci sono ideologie ancora valide, magari in una versione aggiornata, come quella liberale e socialdemocratica di Keynes e Beveridge. A
nche il liberismo di Hayek e Friedman è un’ideologia che ha influenzato il mondo occidentale dagli anni Ottanta in poi. Oggi tutti si proclamano pragmatici come se le scelte politiche non fossero orientate da una gerarchia di valori e come se questa gerarchia fosse scontata per ogni persona di buon senso. In Diario minimo Umberto Eco scriveva: «è tipico delle nuove ideologie non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute come verità».
Splendida citazione che potrebbe chiudere il nostro scambio, ma alla fine non riesco a non chiederti i tre saggi che dopo questi mesi terribili renderesti una lettura obbligatoria per la sinistra del “dopo”.
E tu mi permetterai di scegliere tre libri usciti da poco per i nostri tipi, scritti da tre donne (e un uomo) che penso raccontino bene il mondo che potrebbe essere: Una buona economia per tempi difficili di Abjit Banerjee ed Esther Duflo; Missione economia. Come cambiare il capitalismo di Mariana Mazzucato e I bugiardi del clima di Stella Levantesi.
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