Antonio Franchini e Antonella Lattanzi, una narratrice e un narratore alle prese con il vissuto indicibile dialogano con Tamara Baris
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
TAMARA BARIS C’è una distanza da rispettare quando si racconta di sé stessi? Sentite di aver sempre rispettato questa distanza, l’“arte di esservi sempre un poco di fianco”?
ANTONIO FRANCHINI: Ci sono scritture “furiose” che non rispettano questa distanza e traggono la loro eccezionalità, in positivo, proprio dal fatto che non la rispettano affatto o la rispettano meno di quanto si dovrebbe. Un esempio di questo mancato distacco sono Le confessioni di Jean-Jacques Rousseau. In generale, però, le scritture che partono dall’io, ma aspirano a una universalità indipendente da quell’esasperato narcisismo che in alcuni casi può attingere anche risultati espressivi notevoli, un certo distacco lo devono avere.
ANTONELLA LATTANZI: Raccontare di sé stessi è come inventare una storia. Devi esercitare le stesse competenze, le stesse energie che usi per scrivere un romanzo d’invenzione. Ci vuole distanza, severità, mancanza di orgoglio, concentrazione, dedizione, devozione, mancanza di egocentrismo. Ci si deve mettere, secondo me, davvero al servizio di ciò che stiamo scrivendo. Ancora di più in un romanzo o racconto autobiografico, io mi sono chiesta: questa è una storia? O è solo la mia storia? Il punto mi sembra questo: non per tutti esiste una storia che può diventare un romanzo e non ogni cosa che ci accade – quasi nessuna – può essere un romanzo. Per me è stato importantissimo non lasciarmi andare, castrare del tutto l’enfasi, il vittimismo, l’autocompiacimento, e il compiangersi. Dovevo affrontare l’Antonella/ Toni del romanzo come se non raccontasse la mia storia. Dovevo essere severa con lei, smascherarla nelle sue bassezze (devo dire che questo non è stato difficile, perché io sono sempre molto severa con me, al limite della violenza emotiva).
TB Come si calibra la lingua dell’autofinzione, come ci si smarca dai tranelli di un genere abusato (e chiacchierato)? Luca Serianni diceva che «la forma non è tutto, è il 95%». Quanto conta per voi? Come conquistate, saldi nel vostro centro, la necessaria fidatezza nei vostri lettori? Quanta forza richiede questa operazione di misura?
AF: Sì, la forma è il 95%, o il 90, o l’89, la percentuale varia, ma che importa, ci siamo capiti, ma io sono abbastanza allergico all’uso massivo del termine autofinzione, anche se ne capisco, ovviamente, la portata e il senso. La realtà è che, come tutti sanno, c’è molta autobiografia nascosta nel romanzo che non appare caratterizzato in alcun modo dall’autofinzione e molta più finzione di quanto si possa immaginare in un testo che ha tutto l’aspetto dell’autofinzione. La forza che un autore ci mette per trovare la forma giusta, quella che funziona e sancisce la grandezza dell’opera, non conta. C’è chi ci arriva senza o con poco sforzo e chi con tanto sforzo non ci arriva. L’impegno non è garanzia di risultato. Nell’arte come, in generale, nella vita.
AL: Penso che un romanzo sia sempre un’esperienza incredibilmente faticosa. E spaventosa. Prima di mettermi davvero a scrivere un nuovo romanzo, aspetto più tempo possibile perché mi fa paura, angoscia, provare a scrivere. Io, che di solito sono una persona d’azione, divento un essere procrastinante: ho una paura fisica oltre che mentale di iniziare un romanzo nuovo. Ho sempre paura di non riuscire più a scrivere un nuovo romanzo; senti molto chiaramente, quando scrivi, che il mestiere vero non arriva mai. Che è tutto molto labile, imprendibile. Che non si impara davvero a scrivere un romanzo una volta per tutte, anche quando ne hai scritti tanti. O almeno, così succede a me.
La forza, dunque, in un processo creativo è sempre richiesta, per ogni movimento, ogni gradino. Io non so dire come si calibra la lingua dell’autofinzione, so dire, forse, come ci ho provato io. Come dicevo prima, tenendo alta la severità, sempre. Per me la lingua è tutto. Il mio romanzo preferito è Madame Bovary, che è tutto costruito sullo stile. Un romanzo la cui trama è perfino banale. Un romanzo in cui ogni parola, ogni virgola, ogni punto vuol dire qualcosa. Qualcosa di importante. Per me lo stile è il vocabolario che usi per parlare col lettore, è anche la cartina al tornasole della tua vera capacità di scrivere proprio quel romanzo.
TB Talvolta abbiamo l’impressione di vivere in un mondo eccessivamente narrativizzato, in una realtà romanzesca che sembra scritta (da uno bravo), per quanto sa essere assurda: è questo ad aver spinto gli scrittori a questo ritorno in sé stessi? I lettori in questa comunione (/bisogno) di ascolto?
AF: Sì, l’eccessiva narrativizzazione del mondo contemporaneo può avere contribuito a questo risultato. Io personalmente non sopporto questo insistere ossessivo sugli aspetti “narrativi” di ogni cosa, dalla medicina alla politica alla fisica. È un fastidio più che altro nominalistico, mi rendo conto. Se uno mi racconta la medicina, per esempio, e me la racconta bene, a me piace. Però l’esagerazione annoia, soprattutto chi si fa un punto d’onore, come in genere gli artisti, di non stare dove stanno tutti.
AL: È vero che c’è un florilegio di autofiction in libreria, o meglio di libri che raccontano esperienze vissute. Vale anche per le biografie di personaggi più o meno famosi oppure per il true crime. Credo che come lettori, come lettori puri intendo, non ci interessi più di tanto sapere se una storia è vera o meno. Credo che come lettori puri ci interessi leggere un grande romanzo. Ritorno a Madame Bovary, che è ispirato a una storia vera, e non tutti lo sanno ma a nessuno interessa davvero. O penso a Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, che è un’invenzione ma trasfigura la vera interiorità e il vero destino del suo autore. Come scrittori, io ancora una volta parlo per me. Ho sempre scritto fiction, sempre traendo spunto da qualcosa che nel reale mi aveva coinvolto. Quando il reale mi ha sconvolto, ho deciso di metterlo in un romanzo.
TB Mi viene in mente un personaggio di Selvaggio Ovest di Daniele Pasquini che, a un certo punto, dice: «a furia di fare affari con la realtà, è l’immaginazione il bene che viene meno». Esiste questo rischio?
AF: Sì, esiste questo rischio, ma come sopravvalutare la forma e lo stile porta comunque a delle storture, così anche l’immaginazione non va esaltata troppo.
AL: Penso di sì, e penso che continuare a leggere sia l’unica via. Per tutti. Scoprire grandi scrittori, immergersi in grandi letture, trasecolare. Una delle cose per cui vale la pena vivere, sempre.
da Un anno di storie 2024, Treccani
© Riproduzione riservata