Ho sempre nutrito una certa invidia verso chi pratica la stroncatura. Sicurezza di tono (e di se medesimi), una frase presa ad emblema per un intero libro, quattro battute più o meno ben scritte, e voilà, il signore è servito. E pensare che magari il recensito (stroncato) ha impiegato mesi, a volte anni, a raccogliere il materiale e ad elaborarlo per costruire la sua argomentazione, praticando il difficile mestiere del saggista o dello studioso serio. Ma tant’è, chi stronca va di fretta.

E di fretta è andata Lorenza Pieri recensendo su questo giornale il mio ultimo lavoro, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture, appena uscito da Einaudi. Il mio libro viene infatti presentato come un disinformato pamphlet in cui si difenderebbero i classici dagli “allarmanti” movimenti culturali che, negli Stati Uniti, ne vorrebbero la censura; e per documentare questo pericolo si appoggia a qualche marginale fatto di cronaca di nessuna rilevanza.

Insomma, la Pieri mi dipinge come un sacerdote della cultura greca e romana, il quale si assume il compito di proteggerla da attacchi che, in realtà, non esistono. Naturalmente non è così, anzi è tutto al contrario. A proposito della documentazione, ad esempio, basta scorrere le mie pagine per incontrare note fitte di indicazioni puntuali, nelle quali, per supportare le mie affermazioni, rimando a riviste americane specializzate, articoli del New York Times, libri di professori e professoresse statunitensi.

Non certo unicamente alle ingenue parole di condanna dell’Odissea pronunziate da una qualche professoressa di high school, come sembra ritenere la Pieri. A proposito, lo so anch’io che in America non c’è il liceo classico, non c’è bisogno che mi venga ricordato (ho insegnato a Berkeley dal 1992 al 2018). La cosa più imbarazzante, però, è ancora un’altra. Il mio libro non liquida affatto la “cancel culture” o il movimento “decolonizing classics” con una sprezzante alzata di spalle da sotto la mia veste sacerdotale. Al contrario.

Discuto e approfondisco i motivi, storici e sociali, che in America stanno dietro movimenti come questi, riconoscendone quindi anche le ragioni; e metto anzi in evidenza il fatto che in Europa, sui classici in particolare, c’è molto da lavorare, proprio per mettere in discussione tutti quegli aspetti delle culture antiche che urtano non solo la sensibilità di chi, in America, si ispira al movimento “decolonizing classics”; ma in generale il sentire di qualsiasi persona che abbia un’idea un po’ più nobile dei diritti umani e dell’esistenza in generale.

Come la pratica della schiavitù, pervasiva nelle società antiche, il ruolo marginale riservato alla donna, la difficile posizione degli omosessuali, e così via.

Via alla comprensione

Chi mi conosce sa che da anni combatto una battaglia per propugnare uno studio dell’antichità greca e romana non più come matrice della cosiddetta civiltà occidentale, ma come una cultura “altra” da noi, una palestra per incontrare il diverso e lavorare perciò su di “noi” attraverso il confronto con “loro”. Questa stessa via antropologica all’antico, che come ripeto perseguo da anni, l’ho proposta anche in questo libro. In quale contesto? Vediamo un esempio.

Di fronte a certi classici ritenuti “scomodi”, come le Metamorfosi di Ovidio, in cui ricorrono episodi di stupro, il movimento “decolonizing classics” arriva a proporne addirittura la cancellazione dal syllabus, ovvero ne cosparge il testo di “trigger warning”: avvisi agli studenti che la lettura di quest’opera potrebbe causare disagio o malessere.

Sinceramente non condivido questo atteggiamento censorio, lo ritengo sbagliato perché spegne la scintilla più preziosa che possa accendersi nella mente di uno studente: la curiosità, la voglia di capire, di interrogare e di interrogarsi. Quella che propongo è piuttosto una via storica e antropologica alla lettura e alla comprensione di questo tipo di testi.

Di fronte agli stupri che, nella mitologia greca, vengono spesso compiuti dalle divinità maschili su ninfe o donne mortali, dobbiamo infatti porci prima di tutto delle domande: questo significa forse che in Grecia si poteva stuprare tranquillamente una donna? No di certo, non confondiamo il finzionale con il reale. Ma perché l’immaginario greco punta anche su temi come questi? Ecco una questione preziosa, che può suscitare il problema – comparativo – che anche il “nostro” spazio finzionale, come le serie Netflix o altra cinematografia, non esitano a mettere in scena stupri.

C’è una differenza però – altra domanda, altra curiosità – fra questi due immaginari, il “nostro” e il “loro”? E se sì quale? E qual è, per noi e per loro, il rapporto fra il mondo della fiction e quello della vita reale? Già, infatti Greci e Romani avevano le schiave, le nostre società per fortuna non hanno più questa istituzione … Insomma, un bravo professore o una brava professoressa, con le Metamorfosi in mano, possono suscitare appassionanti discussioni storiche e antropologiche con i propri studenti.

Se però cancellano semplicemente Ovidio dal syllabus, beh, tutto questo non potrà mai avvenire. Mi spiego con un altro esempio, che peraltro sviluppo a lungo nel mio libro. Plauto crea molto spesso battute ironiche fondate sulle crudeli percosse inflitte agli schiavi. E allora che si fa? Smettiamo di leggere le sue commedie, ovvero ne censuriamo delle parti? Oppure facciamo finta di niente, quasi che battute del genere fossero espressioni come qualsiasi altra, di cui cercare al massimo una buona traduzione? Come ancora avviene a scuola o in certe aule universitarie. Né l’una né l’altra cosa.

Comparazione antropologica

Piuttosto, ciò che occorre fare è vincere l’anestesia comica o l’assuefazione classicistica, che l’abitudine a queste tipo di letture potrebbe provocare in noi, per sentirsi urtati da simili invenzioni– e a questo punto partire nuovamente con le domande, non con la cancellazione. Perché Plauto si serve proprio del corpo dello schiavo per creare battute di spirito?

Come le recepivano gli spettatori, fra i quali, oltretutto, sappiamo esserci stati anche degli schiavi? Che società era, quella romana, se usava la violenza come intrattenimento? Magari domande come queste, invitandoci a imboccare la via della comparazione antropologica, possono farci accorgere che anche “noi”, nelle nostre fiction e nei nostri videogiochi, utilizziamo un’enorme quantità di violenza come intrattenimento. E vi sembra normale? Si tratta anzi di un fenomeno talmente pervasivo e sconcertante, che non se ne parla mai.

Come del resto viene dichiarato esplicitamente nel titolo, il mio libro è prima di tutto ispirato al “dialogo”. Per questo la bussola che mi ha guidato nella ricerca è sempre stata quella di trovare una “via di cresta” (come più volte ripeto) fra certi eccessi della “cancel culture” o “decolonizing classics”, e la banalità piatta e volgare delle reazioni italiane e europee che talora si scatenano di fronte a questi atteggiamenti – cioè proprio quelle che la Pieri, davvero paradossalmente, mi attribuisce. Ma si sa, chi stronca un libro non ha il tempo di leggerlo.
 

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