- ll cinema di Jean-Luc Godard era sì bellezza, ma una bellezza appunto impossibile, la bellezza (ri)pensata dall’uomo ormai ampiamente psicanalizzato e disincantato
- Adorato, odiato, tacciato di narcisismo e di misoginia, è stato il re dei festival negli ultimi anni disertato anche dai festivalieri più osservanti
- Si può continuare a essere un genio – e ad alimentare il proprio mito – quando per tutti per sempre sarai legato a vita alla tua opera prima, al tuo esordio? Godard ce l’ha fatta: per via del suo cinema grandissimo anche quando era diventato piccolissimo
Si può dire “è morto” di uno che è sempre stato imprendibile, inarrivabile, a volte impossibile? Si può dire “è morto” di uno che ha (re)inventato il cinema al punto che, allora, bisogna dire che oggi è morto il cinema stesso, e probabilmente è proprio così, chi si prenderà più la briga di inventarlo di nuovo.
È morto il Novecento (del resto è morta anche Elisabetta), ma è morta soprattutto un’idea di cinema come arte visiva totale, arte rappresentativa di un secolo che, altrimenti, avrebbe solo inventato la guerra moderna, e nulla che fosse bellezza. Il cinema di Jean-Luc Godard era sì bellezza, che discorsi; ma una bellezza appunto impossibile, la bellezza (ri)pensata dall’uomo ormai ampiamente psicanalizzato e disincantato, che però aveva terreno fertile per rifare tutto dal principio. À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) è, nel 1960, la nuova matrice, il nuovo canone.
Godard lo sapeva? Non lo sapeva? Certo che sì, e non solo perché non aspettava che la gente per strada si fermasse per non impallare la macchina da presa e ce la faceva passare davanti proprio per rompere le regole (del suddetto canone) e le scatole (al cosiddetto “cinéma de papa”). Lo sapeva perché era un genio, un genio anticipatore, un genio distruttore e al contempo ricostruttore.
Opere prime
I registi (gli artisti tutti) per cui c’è un prima e un dopo – Avanti Godard e Dopo Godard – conservano insieme la gloria e la maledizione, il brevetto e la maniera, e quel divino che rischia di restare, anche relativamente alla loro stessa opera, insuperato.
Godard ha più fatto un film come Fino all’ultimo respiro? Inteso per bellezza, importanza, posizionamento nella storia. Certamente, ne ha fatti tantissimi altri: Il disprezzo, Bande à part, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, Il bandito delle 11 (no, teniamo il magnifico titolo originale: Pierrot le fou), Sympathy for the Devil, La cinese, questi gli intoccabili del primo periodo, poi in mezzo ciascuno ci mette quel che vuole, e tutti poi tornano a concordare sulle Histoire(s) du cinéma (1988-2004) che hanno prodotto un altro linguaggio ancora, almeno finché il linguaggio stesso non è stato ucciso insieme a tutto il resto (Adieu au langage, 2014). (Tra i miei preferiti, anche se non importa a nessuno, c’è anche Una donna sposata, sempre della Fase uno: proprio come la Marvel, del resto JLG è stato un Avenger, osereste dire il contrario?)
Però, ecco, si tornava sempre lì: all’Ultimo respiro, a Jean-Paul Belmondo (altra invenzione, altro volto che senza Godard non sarebbe forse stato divo mai), a Jean Seberg, alle lenzuola bianche, i capelli corti, le maglie a righe: il cinema come un profilo Instagram prima di Instagram, e non me ne vogliano i puristi.
Si può continuare a essere un genio – e ad alimentare il proprio mito – quando per tutti per sempre sarai (leggi i coccodrilli del 13 settembre) «il regista di Fino all’ultimo respiro, l’inventore della Nouvelle Vague»? Quando sarai legato a vita (a morte) alla tua opera prima, al tuo esordio? Godard ce l’ha fatta: per via del suo cinema grandissimo anche quando era diventato piccolissimo, per auto-mitizzazione che poggiava anche sul suo stesso auto-ritratto, gli occhiali neri spessi, la sigaretta, fino, a un certo punto, a scomparire (addio al linguaggio ma, forse, anche all’immagine stessa).
Cinema politico
Ognuno nel cinema di Godard ci ha sempre trovato quel che voleva, l’ha amato e detestato, l’ha spesso sofferto riconoscendone però ogni volta l’importanza. Perché il cinema di Godard è (stato) un atto politico soprattutto quando non parlava di politica (l’ha fatto, spezzando anche il genere documentario, soprattutto negli anni della contestazione e a seguire); un atto di militanza, di presenza nell’assenza, di ricerca della modernità anche quando era sopraffatto dalla modernità stessa (Le livre d’image, l’ultimo film presentato al Festival di Cannes nel 2018, è messa in discussione dell’immagine – ancora – attraverso un oggetto di quasi videoarte che sembra già vecchio).
Adorato, odiato, tacciato di narcisismo (ma quale regista non lo è) e di misoginia (mai moglie e musa fu forse più amata della sua Anna Karina?), è stato il re dei festival negli ultimi anni disertato anche dai festivalieri più osservanti. Ma su due dei manifesti recenti più belli del “suo” Cannes ci sono fotogrammi del suo cinema: la scala di Villa Malaparte a Capri nel Disprezzo (Cannes 2016) e il bacio di Belmondo e Karina in Pierrot le fou (Cannes 2018).
Perché Godard era il cinema, punto. Sempre a Cannes nell’anno in mezzo a quei due, cioè il 2017, passò Le Redoutable (poi tradotto da noi con Il mio Godard), in cui il solitamente scarso Michel Hazanavicius, premio Oscar per The Artist, immaginava un Godard privato e spericolatamente leggero.
Lui era interpretato da un delizioso Louis Garrel, Anna Karina era Stacy Martin, i cinéphile della Croisette l’hanno riempito di fischi e di buuuuu, ma era, a suo modo, un atto d’amore. Era il tentativo di credere che persino Jean-Luc fosse uno di noi, lui che era il genio imprendibile, inarrivabile, impossibile, il genio che non poteva morire mai, e infatti, chi l’ha detto che è successo davvero.
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