Esce ora in Italia la poderosa biografia intitolata Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene, scritta dall’omonimo Richard Greene. Leggere oggi la vita di Graham Greene è istruttivo per intendere come possa essere ingarbugliato il percorso dello scrittore alla continua ricerca di sé stesso
Così, apparentemente, funzionava Graham Greene: come un pescatore d’altura doveva uscire in alto mare, navigare fuori dalle acque territoriali, buttare l’amo in profondità e tornare a casa con la preda.
Caduti gli scandali e i pettegolezzi resta, nuda e monumentale, la sua opera. Certo, è indubbio che Greene avesse bisogno di muoversi continuamente per portare linfa vitale ai suoi libri.
Greene era uno scrittore convinto davvero che l’azione, la voce, la presa di posizione potessero cambiare le sorti della Storia. Le sue grandi frustrazioni non furono artistiche, ma dovute alla consapevolezza che quasi sempre ciò non accadeva.
Nel 1969 Graham Greene pubblicava uno dei suoi romanzi più belli e meno celebri: In viaggio con la zia. Uno spassoso, ma anche compassato, per non dire borghesissimo racconto di indagine esistenziale. E mentre quel libro riscuoteva grande successo, consacrandolo come uno dei massimi autori inglesi, lui, a sessantacinque anni, era in Argentina con la sua amica Victoria Ocampo a una riunione clandestina di dissidenti anti-peronisti. La mente dello scrittore era altrove, alla ricerca di una nuova storia da scrivere.
Di fatto, qualche giorno dopo Greene si imbarcava su un battello che avrebbe risalito il fiume Paranà fino alla capitale del Paraguay, Asunción, paese allora governato da una feroce dittatura. Chi ha letto Il console onorario (1973), uno dei romanzi più emblematici del romanziere – o anche chi ha soltanto visto il film con Michael Caine e Richard Gere – saprà che la prima scena è proprio uno sguardo a quel fiume carico di presagi. Gli avevano detto che Corrientes, dove il battello avrebbe fatto una sosta, era una città dove «Non accadeva mai nulla». Voleva vedere se era vero. E infatti non era così: avvennero dei fatti di sangue, un rapimento, conobbe dei sacerdoti che si dividevano tra Dio e il marxismo. La trama era pronta. Tornato in Europa, si rifugiò come al solito a Capri, come faceva dal 1948, e la scrisse, procedendo a blocchi di trecento parole al giorno. Alla fine, ne allineò 95mila.
Così, apparentemente, funzionava Graham Greene: come un pescatore d’altura doveva uscire in alto mare, navigare fuori dalle acque territoriali, buttare l’amo in profondità e tornare a casa con la preda.
La biografia
La poderosa biografia intitolata Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene, scritta dal non-parente ma solo omonimo Richard Greene, che esce ora in Italia da Sellerio, è cadenzata da scene di questo tipo. Fin dal 1935, quando Greene era un trentunenne da poco sposato, con un primo successo in tasca (Il treno per Istanbul, 1932), il viaggiare (o meglio, scomparire) fu la sua prassi per portare gli ingredienti alla scrittura: in quell’occasione se ne andò in Africa con sua cugina, l’Africa che farà da sfondo a tanti libri.
Leggere oggi la vita di Graham Greene è istruttivo per intendere come possa essere ingarbugliato il percorso dello scrittore in cerca di sé stesso. Nato nel 1904 in un’Inghilterra anglicana, figlio di un preside, il nonno birraio e la madre, donna colta, cugina di Stevenson, vede la libertà in un impiego a Londra e il giornalismo al Times come la prima forma di scrittura.
Sulle nevrosi della prima parte della sua vita torna anche questa biografia, sono un passaggio obbligato per leggere il grande scrittore nevrotico che diverrà. Ecco dunque l’analista frequentato fin dall’adolescenza, il bullismo subìto, la solitudine, le tentazioni suicide che la roulette russa del titolo evocano. È ormai mitologia greeniana. Ci sono poi i primi romanzi fallimentari, tanto che i riconoscimenti tardano, ma neanche troppo, se nel 1932, cioè a ventotto anni, azzecca il tiro con Il treno per Istanbul. Nel frattempo si è sposato con Vivien, per la quale si è convertito al cattolicesimo, e che poi lascerà con i due figli per seguire altre burrascose storie d’amore: Dorothy durante la guerra, quella ventennale con Catherine Walston, a sua volta sposata, quindi l’attrice svedese Anita Bjork, fino alla francese Yvonne Cloetta, con la quale resterà fino alla fine dei suoi giorni.
Diverse cose sono radicalmente cambiate dall’epoca in cui ha vissuto e agito, come uomo e come scrittore, Graham Greene. Lo si giudicava sulla copiosità del sesso nei suoi libri e per le sue relazioni amorose: oggi sono temi che non solleticano più nessuno. Lo si è a lungo giudicato per la sua amicizia con Kim Philby, spia che aveva tradito Sua maestà per l’Unione sovietica. Archiviata la guerra fredda, quel tipo di tradimento è passato di moda. Lo si è giudicato in quanto maniaco-depressivo, affetto da sindrome bipolare, quando sappiamo che questi disturbi sono molto comuni tra gli scrittori, e non solo tra quelli buoni. E dunque? Caduti gli scandali e i pettegolezzi resta, nuda e monumentale, la sua opera.
Certo, è indubbio che Greene avesse bisogno di muoversi continuamente per portare linfa vitale ai suoi libri. Il suo amico e collega Malcolm Muggeridge sosteneva che Graham appartenesse «Spiritualmente, ma anche fisicamente, alla categoria degli sfollati per natura». Se ne andò anche durante la guerra, cooptato dai servizi segreti dell’MI6 a gestire un ufficio periferico in Sierra Leone per dedicarsi al controspionaggio, ripiombando anche qui nella noia ma entrando da quel momento nella lunga schiera di scrittori-spie o presunte tali, etichetta che gli resterà addosso anche quando i servizi segreti saranno solo un ricordo.
Inquietudine e compassione
L’inquietudine, a ben vedere, era una necessità, dal momento che Greene è stato uno scrittore che al centro dei suoi romanzi metteva il presente. Fin dalla sua conversione al cattolicesimo, Greene aveva dovuto accettare a forza l’etichetta di “scrittore cattolico” nella quale non si trovava a suo agio. Più tardi dichiarò che preferiva considerarsi «un buon agnostico». La Chiesa lo considerava «sleale» perché ritrattava peccatori e adulteri, come il protagonista de Il nocciolo della questione (1948).
In realtà, a rileggere oggi i suoi principali romanzi, ne viene fuori uno degli scrittori maggiormente mossi da compassione e spirito di partecipazione: il Messico devastato dalla furia anti-cattolica de Il potere e la gloria (1940), l’Indocina come laboratorio della Cia (e che annunciava il Vietnam) de L’americano tranquillo (1955), l’apartheid in Sud Africa de Il fattore umano (1978), la Cuba di Batista de Il nostro agente all’Avana (1958), il Sud America delle dittature golpiste de Il console onorario, l’Africa pre-decolonizzazione di Un caso bruciato (1960).
Il suo protagonista tipo, lacerato dalla confusione che si ingenera tra bene e male, è l’uomo di fronte alla Storia nel suo divenire. La slealtà di cui venne accusato per la sua amicizia con il traditore Philby era una condizione molto più interiore che esteriore, la condizione, scrive il suo biografo, degli scrittori «Sleali nei confronti del sistema di credenze prevalenti». Come autore, Greene ha tradotto in letteratura i problemi della nostra epoca, frutto spesso di prossimità con personaggi reali, con cattivi reali, furfanti, politici corrotti e bugiardi patologici – figure carismatiche che lo attraevano, come Fidel Castro, il dittatore di Haiti Duvalier che lo fece espellere, il panamense Torrijos con il quale volò a Washington per siglare presso Jimmy Carter i controversi accordi sul canale di Panama e, come neanche un romanzo avrebbe potuto mettere in scena, si trovò a un ricevimento circondato da dittatori, da Videla a Pinochet.
È vero, Greene non si accontentava di scrivere, volle essere una figura pubblica, il partigiano degli oppressi, «un uomo estremamente sensibile alla sofferenza e che non faceva che aiutare gli estranei» si legge nella biografia, mentre nell’intimità – dice chi lo ha conosciuto bene – era un uomo a cui piaceva «creare conflitti». Per certi versi un enigma. Greene era uno scrittore convinto davvero che l’azione, la voce, la presa di posizione potessero cambiare le sorti della Storia. Le sue grandi frustrazioni non furono artistiche («Forse penseranno a me come a Flaubert» disse), ma dovute alla consapevolezza che quasi sempre ciò non accadeva.
Già un classico
Sul piano letterario, ci si è domandati perché Greene, pur essendo scomparso il 3 aprile di trent’anni fa, è già un classico. La risposta è che Greene fa parte di una generazione di scrittori che hanno conosciuto Joseph Conrad vivo. Per noi Conrad è il mitologico autore de La linea d’ombra, del Lord Jim. Per Greene, Conrad era stato un amico del suo amico Norman Douglas, che lo scrittore frequentò a Capri dal 1948 in avanti. Quando lo scorso 12 dicembre è morto John le Carré si è chiusa un’epoca e Greene è morto per la seconda volta. Le Carré era figlio di quella robusta linea narrativa britannica che da Kipling passa per Conrad e giunge a Greene spalancando il nostro immaginario: da Il libro della giungla a Cuore di tenebra al Terzo uomo: letteratura e cinema non sono mai più stati gli stessi.
Lo giudicarono per tutta la vita come peccatore – Il potere e la gloria fu messo all’indice dal Sant’Uffizio che bollò come «triste» la sua visione del sacerdozio – senza sapere che Greene non credeva nell’inferno; «non ha senso», diceva. Lui, disse una volta, credeva nel purgatorio. Paolo VI gli confidò, un giorno, di essere un suo devoto lettore e che l’inchiesta contro i suoi libri era stata «un’assurdità». La tristezza, sapeva Greene, non è peccato.
Ma pare che verso la fine ebbe una speranza: «Se il Paradiso esiste, deve contenere movimento e cambiamento». Aveva vissuto così da peccatore e la scrittura era stata il suo passaporto per il paradiso.
Richard Greene è autore del libro Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene, appena pubblicato in Italia da Sellerio. Traduzione a cura di Chiara Rizzuto
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