Coprodotta da Hbo e Bbc, Industry è una nuova serie sul mondo della finanza londinese. Come ogni show realizzato con investimenti economici notevoli e lunghe filiere di produzione, è anche un’involontaria indagine sociologica sull’epoca in cui viviamo
Chi cerca inattualità e scostamento dallo spirito del tempo può più facilmente trovarlo in un romanzo – l’atto creativo di un singolo – che nella complessa produzione di una serie tv che di per sé è sempre anche un atto sociale.
Qui c’è il totem politically correct della “diversità”, per cui ogni personaggio è in quota a un’etnia, a una classe sociale, a un orientamento sessuale.
Il segreto di Industry è la sua abilità nel raccontare uno spaccato di élite millennial, giovani che lavorano troppo, appaiono del tutto senza direzione e il più delle volte mettono in atto comportamenti privi di ogni empatia.
Industry è una serie sul mondo della finanza londinese coprodotta da Hbo e Bbc e, come ogni show realizzato con investimenti economici notevoli e con lunghe filiere di produzione, è anche un’involontaria indagine sociologica sull’epoca in cui è stato concepito e girato. In altre parole, chi cerca inattualità e scostamento dallo spirito del tempo può più facilmente trovarlo in un romanzo – l’atto creativo di un singolo – che nella complessa produzione di una serie tv che di per sé è sempre anche un atto sociale.
Le otto puntate della prima stagione di Industry seguono le vicende di alcuni neolaureati che incominciano a lavorare in una banca d’affari londinese chiamata “Pierpoint”, sapendo sin dall’inizio che solo alcuni fra di loro saranno confermati alla fine del periodo di prova. La situazione iniziale ricorda quella di certi film italiani di qualche anno fa in cui i personaggi sembravano creati con il manuale Cencelli: il personaggio di sinistra, il leghista, il berlusconiano, talvolta pure quello di LeU o versioni precedenti.
Stereotipi e politically correct
Qui però non ci sono partiti da rappresentare bensì il totem politically correct della “diversità”, per cui ogni personaggio è in quota a un’etnia, a una classe sociale, a un orientamento sessuale, sovrarappresentando le minoranze pur di mostrarle se non tutte, quasi tutte. Di conseguenza, il dialogo che gli autori cercano di intavolare è per forza di cose quello con lo stereotipo, che viene continuamente confermato e immediatamente dopo negato prima che il ciclo riparta da capo.
Il risultato è paradossale perché è come se nello sforzo continuo di negare lo stereotipo questo finisse per mangiarsi qualsiasi altra manifestazione umana. D’altronde se l’assunto è, ad esempio, che il razzismo non sia una possibilità individuale bensì sia “sistemico”, quindi per definizione onnipresente e inevitabile indipendentemente dalla responsabilità personale, può un personaggio permettersi di rapportarsi a un altro personaggio considerandolo qualcosa di diverso da una vittima o un carnefice? No, naturalmente, e qui si incomincia a intuire la portata distruttiva della politica delle identità non solo dal punto di vista sociale e politico ma anche da quello narrativo.
Se un tempo la produzione cinematografica e televisiva anglosassone rappresentava sovente un eroe maschile burbero ma sotto sotto sensibile e una brava donna di casa (esemplificativa in questo senso la scena dei pitch per sceneggiati tv in Quinto potere di Sidney Lumet, 1976), oggi abbiamo una platea di personaggi maschili praticamente tutti violenti o inetti, oppure violenti e inetti, affiancati da donne coraggiose o vittime, oppure vittime coraggiose. Non si va molto più lontano di così, sembra per l’appunto che in quel prodotto collettivo che sono le serie tv non ci sia modo di guardare il mondo al di fuori dello Zeitgeist, con gli occhi sinceri, cioè, dell’arte più profonda.
La sensazione, di fronte a Industry, è perciò più o meno sempre quella di vedere i due autori, Mickey Down and Konrad Kay, camminare su di un filo sospeso sopra le accuse di scorrettezza politica. Va detto che i due nel farlo dimostrano un’abilità notevole e riescono a mandare avanti la macchina utilizzando strategie talvolta sottilissime e altre volte così cervellotiche da finire per eclissare tutto il resto, compresa la storia, il che è un peccato perché è per la storia che si guarda una serie tv, non per avere un manuale di comportamento sociale accettabile.
Sesso e droga
Serve comunque un po’ di indulgenza nei confronti degli sceneggiatori perché riuscire a raccontare degli esseri umani in carne e ossa e non figurine di propaganda politica partendo da un set up tanto ideologico è sempre uno sforzo titanico. Per alleggerire un po’ il clima da moderni mormoni inconsapevoli, Industry fa in compenso un uso smodato di tutto quello che di forte c’è fra quello che l’ideologia contemporanea non vieta, anzi. Per cui grande abbondanza di droghe di tutti i tipi, sesso a ogni occasione utile, soprattutto omosessuale, nudi, soprattutto maschili.
Simbolica da questo punto di vista la ripetizione (dichiarata) della scena in cui in Wolf of wall street Leonardo di Caprio sniffa cocaina dall’ano di una ragazza, questa volta la scena si svolge fra cliente e banchiere, entrambi uomini. In tutto questo non ci sarebbe niente di male se solo sesso e droga non rappresentassero l’unico momento in cui i personaggi della serie assumono tratti umani e sinceri, non sono cioè impiegati in maniera monomaniacale e meccanica a farsi le scarpe gli uni con gli altri e a scandalizzarsi per una parola sbagliata mentre attorno a loro nulla, ma proprio nulla, a partire dalla grottesca pantomima dell’azienda come famiglia, può definirsi morale, neppure in un’accezione blandissima.
Mancanza di empatia
Il segreto di Industry alla fine è tutto qua, è cioè la sua abilità documentaria nel raccontare uno spaccato di élite millennial, giovani che lavorano troppo, guadagnano al primo lavoro più di 100mila sterline l’anno, appaiono del tutto senza direzione e il più delle volte mettono in atto comportamenti privi di ogni empatia. Con questo non intendo il sesso allegro e trasversale o l’assunzione di droghe, bensì la gestione patologicamente egoistica dei rapporti interpersonali, un egoismo contraddistinto dall’ossessione per la formalità del politicamente corretto e da una distanza radicale dall’onestà rispetto a sé stessi e agli altri.
Forse è per questo che in una serie ambientata nel mondo della finanza in cui si fa grandissimo uso di jargon tecnico rimane poi totalmente inesplorato che cosa concretamente venga fatto in quelle stanze, quali siano cioè gli effetti delle scelte prese da investitori e istituzioni finanziarie sulle economie di interi paesi e sulle persone che li abitano. Fra le questioni che rimangono in questo sfondo indefinito e lontano c’è ad esempio la natura delle speculazioni che i personaggi si preparano a mettere in atto in una puntata in cui si prospetta un immaginario referendum per l’uscita dell’Italia dalla Ue.
Se nelle stanze di Industry non si fa e disfà il mondo quanto meno si prendono scelte che contribuiscono a cambiare le cose, ma nessuno sembra considerare tutto questo materia di conversazione o di riflessione. In Industry, paesi interi possono fallire senza che qualcuno alzi un sopracciglio, ma una parola sbagliata detta alla persona sbagliata nell’ambiente di lavoro può causare terremoti lunghi due puntate ed efferate guerre di potere interne. Il politico, che è tutt’altro che una dimensione obbligatoria della narrazione ma in Industry è ovunque, è sempre saldamente puntato sull’ombelico, con l’assunzione di base che tenendolo pulito poi tutto il corpo guarirà come per magia.
Raccontare la finanza
È vero che raccontare i meccanismi della finanza, anche solo superficialmente, è complicato e per molti versi anti-narrativo (ci riuscì con soluzioni stilistiche originali Adami McKay in The Big Short, 2015) ma non è solo questo. Nell’ossessione per il proprio piccolo ambiente e per lui soltanto c’è tutto il narcisismo di fondo della nostra epoca, e se un certo grado d’ipocrisia è perfettamente umano e comprensibile (il male lontano non è mai davvero il nostro male) resta il fatto che la parte meramente descrittiva di Industry racconta un’umanità talmente misera e prevedibile nella sua profonda scissione che dopo un po’ rischia di stufare: lo Zeitgeist non è granché e in Industry sembra a lungo avvolgere letteralmente ogni cosa.
Noiosi gli utopisti ma altrettanto noiosi i realisti del tutto inconsapevoli. La svolta, fortunatamente, arriva verso la fine della stagione, un momento in cui la paziente accumulazione di disagio più o meno muto che è durata per diverse puntate finalmente deflagra, e quando al personaggio più svantaggiato dell’intera serie, una ragazza afroamericana di umili origini che per di più ha dichiarato il falso sulla sua laurea, viene offerto di farsi parte di un movimento di rinnovamento della finanza che non ha nulla ha che fare con la finanza in sé, ma è invece una lotta interna per una gestione più politicamente corretta delle risorse umane, risponde «Tu non mi ha mai visto che come una vittima».
Lo spettatore tira finalmente un sospiro di sollievo di fronte al re messo a nudo: l’identity politics è un affare da borghesi per borghesi. Così quando la nostra eroina compie il suo powermove, rifiuta di tradire la persona che ha creduto in lei (un uomo burbero ma buono, in questo caso però di origini asiatiche) e poi si reca come un personaggio di Balzac a guardare Londra dall’alto noi nonostante tutto siamo con lei e speriamo che la conquisti un giorno, quella dannata città. In quel momento scopriamo anche che nonostante la dipartita di Richard Pepler, il Lorenzo il magnifico della grande serialità, Hbo è ancora in grado di darci le serie migliori in circolazione.
Però, certo, che fatica.
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