Esce Così eravamo, il suo nuovo libro di racconti sugli anni della formazione a Modena. Ha cantato l’angoscia del tempo che passa, oggi dice: «Finisce tutto ma non m’interessa, forse da giovane avrei potuto avere paura». Difende Vasco Rossi e sulla politica dice: «Quattro sfigati al comando non fanno diventare di destra la cultura»
Arriva il cameriere-inventore, nonché lontano cugino, per portare un Lambrusco. Ha depositato un brevetto per solidificare la pipì dei cani in strada e un sistema di tubi per l’acqua piovana contro il cambiamento climatico. Al tavolo arriva anche un vinile da autografare, è Quello che non.., 1990. Pavana dà sempre l’impressione di essere un carotaggio dell’umanità. Infatti Francesco Guccini, 84 anni, parla di vita, storie sue e altrui. E dell’onere e l’onore delle radici, che ti danno il dono di leggere in controluce il mondo e vederne le ossa e le vene. E anche la facoltà di disinnescarne il chiacchiericcio, il fare e disfare, l’elezione di Trump, il “regime” che governa oggi l’Italia, consapevoli di quel che conta davvero.
Così eravamo. Giornalisti, orchestrali, ragazze allegre e altri persi per strada (Giunti, pp. 192), è il suo ultimo libro, cinque racconti della giovinezza, a Modena: franchezza e poesia, l’arte del dubbio, ironia a spillo, onestà, l’umanità per come è. Come nelle canzoni. Era l’epoca in cui tutto poteva ancora succedere, perché la forza di ogni attimo, prima che si cristallizzi in passato, è l’amara meraviglia di un’accadere sconosciuto.
Il primo racconto è su Colombini, compagno di scuola morto a 12 anni.
Ti impressioni da adulto, a pensarci. Calcoli quel che non ha fatto, non ha visto. Pensi alla morte di te dodicenne di allora. Non avresti potuto vedere lo sbarco sulla luna o la guerra in Vietnam. Colombini non ha vissuto i Natali. Ma non sono i suoi, sono i Natali miei, i miei ritorni a Pavana, dai nonni, a mangiare i tortellini, che c’erano solo una volta all’anno, per Natale.
Il grande tema del tempo.
È una costante delle mie canzoni, l’angoscia del tempo che passa. Che poi è la domanda finale: a cosa servono, a cosa tendono, cosa hanno prodotto le nostre vite? Non sono religioso, sono agnostico, essere ateo è una gran fatica. Una volta morto, finisce tutto. Ma non m’interessa, forse da giovane avrei potuto avere paura della morte, ma adesso non mi fa né caldo né freddo. A 84 ci sono arrivato, bene o male ho fatto delle cose, ho conosciuto delle persone, ho amato altre persone, non è che mi lamenti.
Era un bravo studente alle medie?
Ero disadattato, non sapevo studiare. Le medie erano una scuola di élite, c’era la riforma Gentile, era classista, selezionatrice. Sono stato rimandato in prima in latino, in seconda a latino e matematica, e in terza in latino, matematica, inglese e disegno.
In disegno?
Credo di essere stato l’unico in Italia a essere rimandato in disegno. E poi non studiavo perché avevo intessuto, da adolescente 13 enne, una storia erotica con una ragazza. Per cui nei pomeriggi mi adoperavo per questo fabbisogno. Pensavano che mi masturbassi dalla mattina alla sera. E io dicevo: «No, no assolutamente!». Mi facevano iniezioni ricostituenti.
Com’è stato il dopoguerra per la famiglia Guccini?
Non bellissimo. Primo perché ho lasciato Pavana per Modena, alla fine del ’45. È stato sconvolgente. Mio padre è tornato dal campo di concentramento, era lo stesso di Giovannino Guareschi e Gianrico Tedeschi, ma non si sono conosciuti perché erano in 3.000. E poi per il mutuo dell’appartamento a Modena. Ho passato un’adolescenza molto dura e senza un soldo. Diceva mia madre Ester: il 25 del mese è San Pensa, il 27 San Dispensa, arrivava lo stipendio del marito, e il 28 San Senza.
Nel libro c’è il racconto di un ragazzo che vuole fare il giornalista. Perché voleva fare il giornalista?
Sono stato un lettore vorticoso, era la voglia di riprodurre quello che leggevo. Volevo fare lo scrittore da grande e pensavo che fare il giornalista fosse un passo per arrivare alla scrittura. Poi sono arrivate le canzoni, che per me sono sempre un modo, leggermente diverso, di scrivere storie. Dopo aver ottenuto un certo riconoscimento come autore di canzoni, ho fatto il mio primo libro, Cròniche epafàniche.
Raccontare storie coi libri, le canzoni, l’ottava rima.. ora il limerick.
È una forma poetica nonsense, inventata da Edward Lear, nell’800. Ne ho fatto uno su Meloni, Vannacci, Sangiuliano, La Russa.
La destra che vuole “occupare” la cultura?
È ridicolo. Non hanno nessuno. Non c’è un cantautore che possa paragonarsi a De André, De Gregori, Vecchioni. Non è che abbiamo fatto dichiaratamente una cultura di sinistra, però apparteniamo a quella parte lì: le nostre letture, le nostre idee, il nostro modo di vedere la vita.. E ci vuole del tempo. Non posso mettere quei soggetti lì, quattro sfigati al comando, perché la cultura diventi di destra.
La polemica contro Vasco Rossi, attaccato perché ha scritto che i fascisti che sono tornati?
Che elementi del governo si scaglino contro un canterino come lo sono anche io… perché devono perdere tempo con uno che canta? Quelli dicono: «che badi a cantare». Ma come? Noi facciamo idee, non siamo semplicemente gente che canta canzoni scritte da altri, noi le canzoni ce le siamo scritte e in queste canzoni manifestiamo le nostre idee.
Hanno paura del dissenso?
Uno non può dire niente che ti saltano addosso. Hanno paura. Dice Bersani che la tendenza di questo governo è la stessa di tutti i governi di destra: è accentrare, eliminare gli altri poteri. Eh no, abbiamo una Costituzione! Stanno già tentando di limarla.
La sinistra cosa dovrebbe fare per cambiare passo? Schlein dovrebbe allearsi con Conte?
Non so dire, non sono un uomo politico. Forse allearsi non solo con Conte, fare un fronte unico perché altrimenti la sinistra progressista non ce la farà mai. Fare un po’ come quelli di destra che hanno tremila idee differenti ma sono uniti come una roccia nel difendere la propria poltrona. Senza difende le poltrone naturalmente, ma la giusta direzione per l’Italia.
Guarda sempre i talk in tv. Chi è il politico che la fa arrabbiare di più, o la preoccupa di più?
A farmi arrabbiare sono tanti, non solo politici, ma anche giornalisti. A farmi preoccupare sono in molti, quasi tutti.
A dicembre arriva al cinema Fra la via Emilia e il West, il film-concerto filmato a Bologna nell’84. È contento?
Mi lascia perplesso. Non sono convinto di me stesso. Staremo a vedere.
Ma perché?
Credo che buona parte del mio carattere derivi da mio padre. Era montanaro, voleva fare studi umanistici, era interessato alla storia, l’ho descritto nella canzone Van Loon, il divulgatore fiammingo, lui lo leggeva. Mi ha trasmesso questa noncuranza per il mondo edonistico. Non aveva patente, consumista per niente, abile artigiano. Era veramente zen, del mondo non gliene fregava niente, era un proletario di destra, un liberale. I suoi idoli erano Einaudi e Montanelli. Io sono un socialista liberale.
Qualche sera fa in tv Giletti le ha chiesto come si definisce. Ha risposto «buon’omo» e lui si è inchiodato lì.
Quando ti fanno una domanda così, a bruciapelo, cosa gli vuoi rispondere?
Chi sono i tre Pietro e il Piero nella dedica del libro?
Piero è il mio amico più caro, quello della canzone, conosciuto nel ’49 qui a Pavana. Il primo Pietro è mio nonno, che è morto giovane, nel ’53. Poi mio fratello, aveva 14 anni meno di me. Si è diplomato maestro elementare, è andato in India, è andato a Parigi e suonava con la chitarra per tirare su due soldi, tutte cose che io non ho avuto il coraggio di fare, ero più piccolo borghese di lui. Il terzo è mio nipote, ha quasi due anni e dice di me che sono il nonno che suona la chitarra: si mette la mano sulla pancia e fa il gesto di suonare.
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