- Con la guerra in Ucraina e le minacce di Vladimir Putin, il rischio catastrofico che scoppi un conflitto nucleare sembra più vicino che mai
- Per fermare questa escalation è necessaria una risposta globale che condanni la minaccia dell’uso di armi atomiche. Un punto di partenza potrebbe essere l’introduzione del Petrov Day
- Stanislav Petrov è il soldato sovietico che il 26 settembre 1983 scongiurò la terza guerra mondiale, evitando di segnalare un falso allarme di attacco nucleare
Il pericolo di una guerra atomica non è mai stato così alto, da quando Vladimir Putin ha sbandierato il possibile uso di armi nucleari contro l’occidente per difendere l’integrità territoriale della Federazione russa, con «tutti i mezzi a disposizione».
Alcuni analisti definiscono le minacce di Putin un bluff e affermano che non dovremmo averne paura. Ma le minacce nucleari sono sempre un bluff fino al giorno in cui all'improvviso non lo sono più. E in quel preciso momento il rischio di un conflitto atomico e di una catastrofe globale per la specie umana, da probabilità generica diventa drammatica realtà. Non possiamo normalizzare queste minacce e far finta di niente: è estremamente pericoloso e irresponsabile.
Scenari apocalittici
Siamo quindi al punto in cui la comunità internazionale si trova a fronteggiare scenari da Armageddon nello scontro diretto tra le due nazioni che possiedono il 91 per cento delle testate nucleari allocate sulla Terra (5.977 la Russia, 5.428 gli Stati Uniti, stando ai dati più recenti della Federation of American Scientists che cito nel mio libro Terza Guerra Mondiale, Chiarelettere).
Joe Biden ha già anticipato che la risposta di Washington alle minacce di Putin sarà «conseguenziale», anche se il presidente degli Stati Uniti ha voluto mostrare una faccia un po’ più moderata, citando il principio chiave su cui poggia la strategia di deterrenza atomica condiviso dai cinque paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu (tra cui la Russia): «Una guerra nucleare non può essere vinta e non dovrebbe mai essere combattuta».
Cosa possiamo fare per fermare l’escalation? Spiega Beatrice Fihn, direttore esecutivo di Ican (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) la non profit che ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 2017: «È necessaria una risposta forte e globale da tutte le parti del mondo. Insieme, possiamo fare in modo che la comunità internazionale condanni fermamente questo fenomeno e delegittimi le minacce e l’uso di armi nucleari prima che si verifichi una catastrofe».
Petrov Day
Ebbene, un modo semplice, anche se indiretto ma perfettamente adatto a questi scenari, è introdurre anche qui in Italia una giornata di celebrazione ad uso e consumo della memoria collettiva. Così come la Giornata della Terra (Earth Day) è il nome usato per indicare il giorno (l’equinozio di primavera) in cui sono celebrati l’ambiente e la salvaguardia del pianeta Terra, il 26 settembre è il Petrov Day, scelto per ricordare e onorare Stanislav Evgrafovič Petrov (la coincidenza che sia russo non è puramente casuale).
Questo carneade era un ufficiale dell’Unione sovietica che ai tempi della Guerra fredda tra Usa e Urss evitò per un soffio la terza guerra mondiale, disinnescando all’ultimo minuto la miccia di un deflagrante conflitto atomico.
Adesso che la guerra tra Russia e Nato è caldissima, ora che Putin fa capire di essere pronto a puntare nella guerra contro l’occidente l’arsenale nucleare moscovita, il Petrov Day vale il doppio. «Ovunque tu sia, qualunque cosa tu stia facendo, prenditi un minuto e pensa a come fare per non distruggere il mondo» scrisse sul blog Less Wrong, in un post noto a pochi nerd, il guru del neo razionalismo americano Eliezer Yudkowsky, tenendo a battesimo in America il Petrov Day. Facciamolo anche in Italia. Ma intanto vediamo cosa accadde e perché.
1983
La storia dell’uomo che salvò il pianeta inizia alle 6:30 del 1° settembre 1983, quando due caccia da guerra Sukhoi Su-15 dell’aviazione sovietica, in volo di addestramento sul mare del Giappone, abbatterono con due missili un velivolo civile della Korean Air Lines in rotta da New York a Seul via Anchorage.
Il Boeing 747 Kal 707, dopo aver attraversato lo spazio aereo delimitato dal Patto di Varsavia, per ragioni sconosciute non aveva risposto alle chiamate radio dei russi. Morirono 269 passeggeri, tra i quali il deputato americano Lawrence McDonald. Il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan definì l’accaduto «barbarie», «brutalità inumana», «un crimine contro l’umanità che non dovrà mai essere dimenticato».
A quel tempo le relazioni Usa-Urss attraversavano una fase di enorme tensione. I rapporti tra le due superpotenze simbolo del capitalismo e del comunismo erano al picco più negativo dai tempi della fallita invasione americana della Baia dei Porci a Cuba nel 1961, quando alla Casa Bianca sedeva John F. Kennedy e al Cremlino Nikita Krusciov.
Dopo l’abbattimento dell’aereo sudcoreano, Jurij Vladimirovič Andropov, segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (lo fu dal 12 novembre 1982 fino alla morte, avvenuta il 9 febbraio 1984) già gravemente malato, si convinse che gli Stati Uniti stessero progettando un massiccio attacco. Il Kgb inviò un messaggio flash a tutti i suoi agenti operativi, avvertendo di prepararsi a una possibile guerra atomica.
Il 26 settembre 1983, quasi un mese dopo, Stanislav Evgrafovič Petrov era l’ufficiale in servizio nella base militare sovietica superprotetta Serpukhov-15, non lontana da Mosca, dove aveva sede il centro di comando e controllo dell'arsenale nucleare. A un certo punto il sistema di allarme, basato su una rete di satelliti in orbita, segnalò il lancio di un missile americano. Forte dell’esperienza accumulata nello svolgere da anni un compito così delicato, Petrov decise di mantenere la calma, sospettando d’istinto un errore del computer.
Il sistema segnalò poco dopo il lancio di un altro razzo da parte dell’America. Poi un altro, e un altro ancora, fino a evidenziare sullo schermo cinque missili a testata nucleare in arrivo con una traiettoria che puntava diretta a bersagli sui territori dell’Urss. Stando ai manuali e alle procedure del centro Serpukhov-15, in cui tutti, dal primo all’ultimo militare, erano impegnati giorno e notte a monitorare eventuali attacchi atomici Usa per poter avviare subito un contrattacco (la Mad, «mutua distruzione assicurata» messa in pratica) Petrov avrebbe dovuto agire e allertare i superiori. Ma non fece nulla.
Una commissione d’inchiesta determinò in seguito ciò che era realmente accaduto. L’allarme era stato causato da un riflesso provocato da raggi di sole su nuvole ad alta quota, che si allineava esattamente con l’inquadratura del satellite collegato a una base missilistica statunitense nel Nord Dakota. Nella sala comando del centro Serpukhov-15 scattarono all’unisono sirene e luci lampeggianti rosse, mentre gli ufficiali urlavano ai militari in servizio di mantenere la calma. Sul maxi pannello che raccoglieva i dati del sistema informatico ad un certo punto si vide solo la scritta a lettere cubitali «Старт» («Start» in russo).
La scelta
Molto tempo dopo, in un’intervista del 2013, Petrov spiegò che se avesse segnalato che c’erano missili americani in arrivo, i suoi capi avrebbero certamente lanciato un massiccio attacco nucleare di rappresaglia, scatenando così un conflitto atomico globale: la terza guerra mondiale. Gli restavano quindici minuti prima che i missili sullo schermo, se davvero lo erano, raggiungessero i target. Mentre intorno a lui si discuteva con toni da dramma sul da farsi, decise che, nell’incertezza, avrebbe preferito non distruggere il mondo. Al telefono confermò ai suoi superiori che il rilevamento del lancio multiplo era un falso allarme.
Questo «eroe riluttante» aveva studiato all’infinito quel possibile scenario. A influenzare la decisione fu la consapevolezza che un vero attacco Usa avrebbe dovuto essere «a tutto campo», quindi quei cinque missili gli sembrarono un inizio poco logico. Petrov spiegò che il sistema di monitoraggio era di recente costruzione e, a suo parere, non ancora del tutto affidabile. Inoltre, il radar di terra non era riuscito a raccogliere prove corroboranti, anche dopo vari minuti. L’ufficiale ha ammesso di non essere mai stato sicuro al cento per cento che l’allarme fosse effettivamente errato.
Vita nell’ombra
L’umile tenente colonnello che ha salvato il mondo dall’Armageddon ricevette dapprima le congratulazioni dai suoi superiori. Poi fu rimproverato per non aver seguito le regole, fu più volte interrogato e torchiato, ma alla fine non subì alcuna sanzione perché a Mosca i vertici militari temevano che l’episodio potesse mettere in risalto l’inefficienza del sistema sovietico. Diversi mesi dopo, in cattive condizioni di salute e molto amareggiato, Petrov si dimise dall’esercito dell’Urss.
Andò in pensione in relativa povertà ritirandosi nella città di Fryazino, con un assegno di 200 dollari al mese. Nel 2004 l’Associazione cittadini del mondo gli conferì un trofeo e un premio di 1000 dollari. «È stata questione soltanto di un momento, nello svolgimento del mio lavoro» si schermì lui quando nel 2013 ricevette il premio Dresda per aver contribuito a mantenere la pace nel mondo. Tenne un basso profilo anche nelle numerose interviste richiestegli dalla stampa occidentale (tra cui una del Corriere della Sera, mentre nel 2017 il conduttore tv Roberto Giacobbo ha pubblicato per Rai Libri insieme a Valeria Botta il volume L’uomo che fermò l’apocalisse).
L’ex ufficiale restò in silenzio pure dopo l’uscita di due film imperniati sulla vicenda, un documentario polacco girato nel 2011, The Red Button, e soprattutto il docufilm del 2014 L’uomo che salvò il mondo, con Kevin Costner, un thriller veritiero e ben girato che fa venire i brividi, soprattutto oggi alla luce delle schermaglie atomiche tra Putin e Biden sull’Ucraina.
A un soffio dalla catastrofe
La storia scritta in dossier top secret ci ha consegnato decine di episodi negli ultimi anni in cui il mondo si è trovato a un passo dal fronteggiare l’estinzione per un falso allarme, per errori tecnici o umani, report inesatti o per il malfunzionamento dei sistemi di intelligenza artificiale che presiedono il lancio dei razzi atomici (adesso tremendamente più sofisticati rispetto agli anni Ottanta).
Migliaia di potenti missili schierati dalle triadi di Stati Uniti e Federazione russa in silos terrestri, cacciabombardieri e sottomarini, sono pronti 24/7, o come si dice in gergo, in hair-trigger alert, ovvero predisposti per un lancio immediato, nel giro di pochi minuti. Gli errori e i falsi allarmi che hanno portato il mondo a un passo dalla catastrofe sono stati molto più numerosi di quanto ciascuno di noi possa immaginare. In sostanza, finora ci è andata bene.
Ma, di nuovo, non possiamo normalizzare le minacce di Putin e la postura nucleare aggressiva della Nato (in Italia ci sono 40 bombe atomiche americane, custodite nelle basi aeree di Ghedi e Aviano) e continuare a non fare nulla: è estremamente pericoloso e irresponsabile.
Per la cronaca, Stanislav Evgrafovič Petrov è morto solo, frustrato e in miseria il 19 maggio 2017, a 77 anni, nel silenzio dei media e nell’indifferenza del mondo politico. Un uomo qualunque, eppure in centinaia di milioni probabilmente siamo vivi grazie a lui.
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